Giulio Cesare, l’uomo più famoso del suo tempo, dovette coniare monete con la propria effigie per poter veicolare la propria immagine all’interno dei confini dell’Impero Romano. Anche al culmine del suo cursus honorum, la carriera romana nella cosa pubblica, il suo volto era noto per lo più soltanto ai nobili e ai maggiorenti dell’Urbe. Duemila anni dopo, la situazione sarebbe irriconoscibile, non solo per gli uomini e le donne dell’antichità. I social network hanno letteralmente capovolto l’aforisma attribuito ad Andy Warhol, rendendo praticamente chiunque una possibile celebrità – non per i fatidici quindici minuti di gloria, ma per quella quindicina di “amici” o di followers disposti a dispensare attenzione e likes anche ai non famosi. Tra le due epoche, si inserisce la favolosa parabola del divismo e della celebrità novecentesca, inaugurata dal cinematografo e proseguita con lo sport e la musica pop, che ha industrializzato la fama universale a partire dai primi proto-famosi dell’Illuminismo: Voltaire, Benjamin Franklin, Jean-Jacques Rousseau – che fu anche il primo a lamentarsi delle conseguenze della celebrità.
Alessandro Lolli ripercorre in Storia della fama. Genesi di otto miliardi di celebrità non solo l’evoluzione di un fenomeno sociale le cui origini risalgono almeno alle comunità paleolitiche, ma anche la qualità formale di un’esperienza che fino a pochi anni fa – dalla rockstar al sindaco del capoluogo – riguardava soltanto una cerchia ristretta a poche migliaia di persone. Ed è qui che emerge il primo problema: in che senso possiamo accostare la “celebrità” di un odierno micro-influencer a quella di Alessandro Magno (che, per inciso, impose assai prima di Cesare la propria effigie al conio dei Macedoni)? Per Lolli, l’unica qualità formale che possiamo associare alla fama, in qualsiasi epoca, è la sostanziale asimmetria tra il conoscente e il conosciuto: tra me e Bob Dylan, tra la celebrità e il suo ammiratore. Il selfie che li ritrae per un attimo nella stessa cornice semantica non deve trarre in inganno: quello che per il fan sarà un giorno memorabile, per il suo idolo è semplicemente un martedì.
Questa disarmonia non è priva di conseguenze sul piano esistenziale. Un fan, passando attraverso un’esperienza intensamente deludente, può trasformarsi con quasi altrettanta facilità in un hater implacabile, in un odiatore altrettanto appassionato, non appena la celebrità si dimostri indegna del piedistallo ideale su cui era stata collocata. È una dialettica a cui i social ci hanno abituati su base praticamente quotidiana, a partire dalla metà degli anni ’10, mentre in passato era soprattutto oggetto di narrazioni come Re per una notte di Martin Scorsese o di una parabola drammatica come quella di Mark David Chapman.
Se la struttura degli attuali social media come YouTube, Twitch e – in misura assai più obliqua e pervasiva – TikTok offre oggi inequivocabilmente un palcoscenico, reintroducendo dalla finestra il ruolo dello spettatore e quella “navigazione passiva” che Internet pretendeva di aver cacciato dalla porta nei lontani anni ’90, non meno rilevante è stata la rivoluzione dei social network, inaugurata all’inizio del secolo da Facebook e proseguita da X, Instagram, Snapchat, ecc. Qui la mossa vincente di Zuckerberg è stata sicuramente il superamento dell’anonimato – un vero e proprio tabù della vecchia Internet dei forum e delle chat ante MSN – legando un corpo fisicamente individuabile alla login e trasformando l’identità stessa in un proscenio spettacolare attraverso il feed del proprio profilo.
Dribblando le interpretazioni puramente neurologiche (iperstimolazione, dipendenza fisiologica, ecc.) e psicologiche (narcisismo di massa, ecc.) delle nuove piattaforme digitali, Lolli propone la vecchia meccanica della celebrità come base della socialità (e dell’alienazione) “famogena” veicolata oggi dai like e dalle reaction di otto miliardi di persone attraverso i social: «Tutte le relazioni che abbiamo sui social network, comprese quelle a noi più vicine, sono stilizzate dalla fama, sono attraversate dalle sue strutture, dal palcoscenico, dal pubblico: lo stile della comunicazione dispone ciascuno di noi alternativamente sopra o sotto il palco» (p. 171).
In pratica, non mi limito a mettere un like a un tuo post, ma lo faccio pubblicamente, “con un miscuglio di emozioni”, sapendo di essere visto e, a mia volta, commentato, ecc. La novità non consiste tanto nella relazione – “divistica”, da “opinionista”, ecc. – in sé, quanto nella dimensione istillata reciprocamente tra soggetti sottoposti a questa “osservazione di secondo ordine” nella loro vita online quotidiana. Il testo, che sviluppa il suo percorso attraverso un sentiero analitico chiaro, estremamente piacevole alla lettura, accenna nell’ultima parte anche alla dimensione politica che la celebrità di massa e la prospettiva degli artificial influencer proiettano per il prossimo futuro.