In questi climi editoriali dalle identità confuse, alcune case editrici coraggiose stanno offrendo ai lettori proposte di qualità certa. Una di queste è la giovane Ventanas, che si era già distinta con un romanzo candidato al Premio Strega 2025; presentare al mercato italiano un romanzo autobiografico, postumo, di uno dei più grandi linguisti e filologi messicani, è una scelta, oltre che audace, originale e consapevole.
L’emicrania è un ritrovamento di cento pagine di scrittura a macchina piena di annotazioni di Alatorre; i figli dopo la sua scomparsa scoprono il manoscritto del padre e decidono di portarlo alla luce, il testo è incompleto, il critico non è riuscito a ultimarlo. Dopo essersi consultati tra loro, scelgono, rispettando l’essenza del libro, di dargli una conclusione. Per loro è una sorpresa, Alatorre nella sua vita e carriera ha scritto un numero inquantificabile di articoli per la rivista da lui fondata, “Pan”, e svariati testi di critica letteraria su “Revista Mexicana de Literatura”, ma quello che hanno tra le mani è una scoperta di natura diversa, un romanzo autobiografico in cui l’uso della lingua scorre con una teatrale e poetica musicalità. «… oltre alla stesura di recensioni, a volte con uno pseudonimo, per non dare l’impressione che fossero uscite dalla penna di una sola persona: un lavoro certosino e invisibile, poiché era la rivista a dover brillare non il suo responsabile».
Per apprezzare L’emicrania è necessario apprendere l’ecclettica poliedricità e la vasta cultura di questo intellettuale; la prefazione di Martha Lilia Tenorio, ricercatrice universitaria, studentessa di Alatorre, ci permette di entrare in un mondo determinato dalla conoscenza della lingua e del suo uso, ma non solo, con obiettività mostra brevemente la carriera di un uomo che ha basato tutta la sua vita sulla diffusione della letteratura nel suo paese. Il critico letterario è nel giardino di casa, in un grigio pomeriggio afoso, seduto, contempla l’assenza di movimento delle nuvole in un cielo compatto e saturo, la moglie gli offre un gin tonic e un malessere a lui familiare lo assale, l’emicrania sopraggiunge e da questo momento il lettore viene calato in un viaggio sensoriale che ha del metafisico e, allo stesso tempo, ha il sapore della destrutturazione e della derealizzazione dell’essere investito da quel dolore offuscante che è l’emicrania. «L’emicrania è una invasione poderosa è terribile, un morso rilucente, azzurro e giallo. Si muove con un zigzag spigoloso e velocissimo, dall’alto verso il basso e non si esaurisce mai, anzi si riproduce alla stessa velocità, atrocemente silenziosa, oscillando rasente al campo visivo…»
Ma il dolore provato dall’anziano professore in giardino appare come un pretesto letterario per unire i tasselli della sua vita nella quale il malessere compariva inaspettatamente; la narrazione ci porta quindi in un altro tipo di viaggio, quello della sua giovinezza, la scoperta dei suoi talenti in campo letterario e musicale, e la rivelazione dello sbocciare del corpo in un contesto come quello del seminario, sua casa di apprendimento culturale negli anni dell’adolescenza.
«È bello che esistano i meli e l’aria, e che esista una lezione stilistica per instillarci raffinatezze». Ed è quello che è L’emicrania, un romanzo dalla prosa raffinata ed elegante in cui la cifra stilistica dell’autore ha il marchio della tecnica corretta dell’uso della lingua. Non solo, un’occasione per conoscere una mente brillante e devota alla letteratura.