Benedetto Croce / Una “autobiografia mentale”

Benedetto Croce, Soliloquio e altre pagine autobiografiche, cura Giuseppe Galasso, pref. Piero Craveri, Adelphi, pp. 123, euro 12,00 stampa, euro 6,99 epub

Il florilegio autobiografico crociano approntato da Giuseppe Galasso (e inizialmente pensato per Toni Servillo, lettore d’eccezione durante una serata al Bellini di Napoli nel 2016) ha il pregio di spaziare lungo tutta l’articolatissima attività teoretica e saggistica del filosofo: dal Contributo alla critica di me stesso (1915) alle Storie e leggende napoletane (1919), sino ai Taccuini di lavoro. 1906-1949 (1992). Con opportuni e concisi testi introduttivi che legano cronologicamente fra loro i lacerti confessionali scritti da Croce, Galasso ci conduce in quell’intricata e fruttuosa vita, sconvolta inizialmente dal terremoto che colpì Casamicciola il 28 luglio 1883 – in cui il diciasettenne Benedetto perse i genitori e la sorella e con il fratello Alfonso fu accolto a Roma nella casa dello zio Silvio Spaventa –, e poi pian piano riequilibrata in un deciso “superamento dell’angoscia” grazie alla costituzione del suo celebre sistema filosofico (l’Estetica uscì nel 1902, la Logica e la Filosofia della pratica furono pubblicate nel 1909) e alle felicità domestiche in Via Trinità Maggiore (oggi Via Atri), nido del suo lungo matrimonio con Adele Rossi, “base morale” dei suoi studi e del suo sentire interiore.

Molto importanti sono gli anni delle due guerre mondiali che vedono Croce impegnato in ruoli pubblici di prim’ordine: sin dal 1910 è infatti senatore del Regno (nominato da Giovanni Giolitti); e se nel ’14 appare come convinto anti-interventista, poco dopo – osserva Galasso – “mise da parte ogni riserva e seguì […] con piena lealtà nazionale la partecipazione italiana al conflitto”. Nel tempo buio del fascismo, com’è noto, Croce, per via del suo prestigio a livello internazionale, fu tollerato quale capo di un’esigua schiera di “vecchi intoccabili” seduti tra i banchi dell’opposizione nella Camera epurata. Nel ’25 redasse il celeberrimo Manifesto degli intellettuali antifascisti, firmato – tra gli altri – da un giovane Eugenio Montale. Ecco il commento di Croce a quegli anni opachi: “La gita di ieri a Torino, il colloquio col Frassati mi hanno tenuto fino a stamane in una meditativa tristezza. Penoso senso di soffocamento per la soppressa libertà di stampa: ribellione dell’animo a questa ingiustizia violenta e ipocrita insieme. Ho riesaminato ancora una volta per ogni verso la situazione presente; e il riesame mi avrebbe lasciato nella depressione della tristezza, se non mi fossi rammentato di cosa che, da filosofo, ho ragionato, dell’errore cioè di porre i problemi politici in termini estrinseci, scrutando l’Italia e temendo o sperando per lei; laddove l’unico modo di porli è quello personale e morale che cerca e mette capo alla determinazione del quid agendum personale, del proprio dovere”.

L’altissima coscienza etica del ruolo dell’intellettuale – quasi fosse il Singolo kierkegaardiano – si scontra successivamente con la recrudescenza del clima politico, ormai del tutto avvelenato: il 1° novembre 1926 gli squadristi napoletani operano una “spedizione punitiva” a casa del filosofo, amareggiato ma non intimidito, seccato da “discorsi di mal augurio” e “catene ininterrotte di visitatori” che rallentano i suoi serrati ritmi meditativi e lavorativi. L’epoca da “basso impero”, l’amicizia con Thomas Mann, la caduta di Mussolini, la liberazione definitiva dal “male” del fascismo, la fine della guerra: le pagine di Croce crescono in magnanimità e tenacia esistenziale quando la situazione umana raggiunge il suo punto più arduo. È lì che il pensatore è ancor di più – in un incredibile contatto con le riflessioni gramsciane – al servizio del popolo, perché nell’esempio della sua condotta emerga un’integrità memorabile, operosa. “La morte […] non può fare altro che così interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare”.