Cecile Pin / Casa è dove stai

Cecile Pin, Anime erranti, tr. di Benedetta Gallo, Einaudi, pp. 192, euro 18,50 stampa, euro 9,99 epub

Nel suo romanzo d’esordio, Anime erranti, la scrittrice franco-vietnamita Cecile Pin affonda nella tragedia personale e collettiva dei “boat people” vietnamiti – ovvero le centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini che, dopo la fine della guerra del Vietnam nel 1975 e l’instaurazione del regime comunista, fuggirono dal Paese a più riprese su imbarcazioni di fortuna, affrontando pericoli estremi pur di cercare asilo in altri Stati. Molti morirono in mare, vittime di naufragi, pirateria o malattie. Quella dei “boat people” fu una delle prime crisi umanitarie moderne legate alla migrazione via mare e segnò profondamente l’immaginario dell’esilio asiatico.

Pin intreccia questo trauma storico con un’indagine poetica sul significato della memoria, della morte e della narrazione. La storia si apre con una fuga in mare: una famiglia lascia il Vietnam in due barche separate. Solo una raggiunge la salvezza. Nella barca superstite ci sono la giovanissima protagonista, Anh, e i suoi due fratellini minori. I genitori e gli altri figli annegano. La tragedia diventa così fondamento e ferita, radice di uno sradicamento che costringerà i sopravvissuti a reinventarsi altrove.

È qui che Pin inserisce l’elemento più originale e toccante del romanzo: i fratellini morti non spariscono, ma continuano a vivere come anime erranti, voci che intervengono nel corso della narrazione, commentano, consolano, osservano. Non sono fantasmi gotici, ma presenze discrete, impregnate di un dolore tenero, che si fanno carico di una memoria impossibile da elaborare. Non a caso il titolo del romanzo richiama sia un elemento centrale dell’immaginario spirituale vietnamita – l’anima errante è lo spirito di chi non ha ricevuto degna sepoltura – sia una pagina poco nota della guerra del Vietnam: l’“Operazione Wandering Soul”, una campagna di guerra psicologica messa in atto dall’esercito statunitense che, sfruttando proprio queste credenze radicate, trasmetteva di notte nei villaggi registrazioni di ‘fantasmi’ di soldati morti, voci disperate che imploravano i vivi di tornare a casa. L’intento era spezzare il morale dei combattenti Viet Cong, evocando il terrore di un’anima in pena. Pin ribalta quella strategia di terrore in un contro-dispositivo narrativo: le anime erranti del suo romanzo non minacciano, ma curano; non smobilitano, ma aiutano a tenere insieme i fili di un’identità frantumata. I fratellini diventano la voce che rompe il silenzio in cui Anh si è chiusa, il coro discreto che dà forma a ciò che la protagonista, schiacciata dal trauma e dall’assimilazione forzata, non riesce a dire.

Come tutte le storie migranti, anche quella di Anh si muove nel tempo e nello spazio, attraversando campi profughi, incontri con pirati, violenze di ogni genere delle quali l’autrice si chiede se raccontare di più o di meno, fino ad arrivare in Inghilterra. Sradicamenti linguistici, e poi il lento e spesso doloroso processo di integrazione. Ma Anime erranti non è solo una storia di sopravvivenza. È anche un romanzo sull’impossibilità del ritorno. Quando, molti anni dopo, i fratelli sopravvissuti decidono di dare finalmente una sepoltura ai familiari annegati, scelgono di portare le loro ceneri non in Vietnam – terra d’origine ormai divenuta estranea – ma in Inghilterra, dove la loro vita si è svolta. È un gesto emblematico, che rifiuta la retorica del ritorno alle radici per affermare un’appartenenza più complessa, ibrida, sradicata ma non per questo meno autentica. “E cosí ora tutta la famiglia era a Londra, perché Londra era dove stavano, e dove stavano era casa”.

Un altro aspetto fondamentale che il romanzo Anime erranti porta alla luce — in modo implicito ma devastante — è il meccanismo della selettività nell’accoglienza. Se è vero che la storia della migrazione si ripete come un tragico “giorno della marmotta”, dove nulla cambia se non i volti e le rotte, è anche altrettanto vero che non tutti i migranti sono accolti o percepiti allo stesso modo. La vicenda della famiglia vietnamita, inserita nel contesto storico della Guerra del Vietnam, vede l’Occidente (in particolare gli Stati Uniti, ma anche l’Europa) in una posizione diversa da oggi: il Vietnam era un teatro di guerra ideologica, e i suoi profughi venivano letti come vittime del comunismo, dunque meritevoli di salvezza. È così che i “boat people” della fine degli anni Settanta trovarono — almeno formalmente — una certa apertura. Non furono accolti a braccia aperte, ma non furono nemmeno respinti in mare o lasciati morire sotto gli occhi delle telecamere.

Il romanzo mostra, oggi, quanto quella stessa fuga disperata, con gli stessi rischi, non riceva più lo stesso trattamento. Perché a fare la differenza, spesso, non è la sofferenza, ma la provenienza. I governi, operano — più o meno consapevolmente — una scala emotiva della compassione, distinguendo tra profughi “ammissibili” e altri che restano invisibili. Si tratta di un razzismo umanitario, che stabilisce chi è degno di accoglienza e chi invece è percepito come minaccia, o semplicemente come scarto geopolitico. Persino all’interno dei movimenti solidali, esistono “profughi preferiti”, più facili da raccontare, da abbracciare, con i quali identificarsi politicamente. I migranti asiatici degli anni Settanta appaiono oggi come figure quasi nobili, ricollocate nel mito dell’integrazione riuscita. Ma i morti in mare di oggi, che arrivano da altre coste, continuano a restare animi erranti senza voce né ascolto. Anime erranti è anche questo: un libro che ci costringe a riconoscere le ipocrisie della memoria e della solidarietà selettiva, e a chiederci perché alcuni esodi vengono ricordati — e altri no.

In questo paesaggio spezzato, la letteratura ha un compito preciso. Non è solo il luogo del lutto e della memoria ferita, ma anche uno spazio di possibilità, dove ciò che è indicibile può essere tramandato. Per questo, nel finale del romanzo, è significativo scoprire che non sia Anh – la sopravvissuta – a scrivere la sua storia. È sua figlia, nata e cresciuta in Inghilterra, con un nome inglese – Jane – a farsene carico. La narrazione si sposta così alla generazione successiva, a chi ha abbastanza distanza per ascoltare, per nominare il dolore, per raccogliere ciò che è rimasto in sospeso.

Questa scelta metanarrativa avvicina il romanzo di Pin a Io sono l’uomo con due facce di Viet Thanh Nguyen, che pure si confronta con la diaspora vietnamita e con la lacerazione identitaria che essa comporta. Ma mentre Nguyen sceglie una voce maschile, duplice, spaccata tra due lealtà e due verità, e costruisce un dispositivo ironico e spietato per denunciare l’ipocrisia del potere, Pin lavora per sottrazione: la sua è una scrittura sobria, empatica, che lascia spazio al non detto, ai fantasmi, al bisogno di cura.