David Szalay / L’uomo, il corpo, la solitudine

David Szalay, Nella carne, tr. di Anna Rusconi, Adelphi, pp. 236, euro 20,00 stampa, euro 10,99 epub

Dopo le due raccolte di racconti arriva in Italia il primo romanzo di David Szalay con traduzione di Anna Rusconi e non poteva che essere forse l’apice o forse la chiusa di un cerchio perfetto sulla vulnerabilità e sulla precarietà dell’essere uomo, individuo umano di sesso maschile, ai giorni nostri.

Come per i racconti è difficile non legare la biografia dell’autore ai macrotemi delle origini e del ritorno dato chele vicende del protagonista, Istvàn, partono e si concludono in Ungheria dopo una lunga parentesi a Londra. Anche lo stato sociale dell’uomo segue la stessa parabola: l’Ungheria rappresenta ed è nel libro il luogo delle disillusioni e delle scoperte. Se nel primo capitolo Istvàn è un adolescente impacciato che non comprende il suo corpo e anzi diviene schiavo delle proprie pulsioni, questo suo subire il corpo dovendolo abitare e con esso esporsi al mondo si fa contemporaneamente anche maschera. Chiariamo subito che, se Dante dovesse inserire Istvàn in uno dei suoi gironi forse si troverebbe in difficoltà a dover scegliere tra i lussuriosi, gli ingordi, quelli con sete di potere (in una piccola parentesi nella Londra post lockdown), ma sono abbastanza convinta che alla fine opterebbe per l’Antinferno, nel girone degli Ignavi. Perché in fondo malgrado il protagonista compia un viaggio di crescita e definizione del sé durante tutta la sua vita e attraverso tutti i suoi incontri sessuali, è anche vero che la maggior parte delle cose che gli capitano le subisca per non volontà di decidere.

Tutte le donne con cui instaura un rapporto non sono da lui scelte e talvolta neanche gli piacciono, ma tant’è non può sottrarsi alla sua immagine. Il suo essere lui passa necessariamente attraverso il flusso degli eventi: diventa l’amante della moglie del suo capo perché è lei a decidere che cosa saranno, cerca disperatamente di accumulare beni di lusso perché sua madre lo spinge a veder oltre il momento che sta vivendo. Tanti gli spostamenti e i cambi di paesaggio che l’autore ci propone in maniera veloce e dinamica attraverso dettagli infinitesimali: un piatto di zuppa, la vista di una finestra, la finitura di una camera di hotel, il bordo di una piscina, ma anche i particolari delle persone che lo circondano. Interessanti perché verosimili e assolutamente neutri anche quando potrebbero essere drammatici i dialoghi che sono la spina dorsale di tutta la narrazione ed è ancora più indicativo che anche in essi Istvàn usi sempre frasi brevi, poche domande, molte asserzioni e soprattutto tenti sempre l’accondiscendenza.

In fin dei conti l’autore è riuscito a rendere il personaggio “ciascuno fuori di noi” sottolineando con ironia come certi giudizi siano estremamente facili applicati a chi si osserva. Ci si ritrova spesso a odiarlo, Istvàn, altrettanto spesso a domandarsi come possa un uomo non volere di più o di meno o semplicemente volere qualcosa che non sia il solo esistere. Quasi estraneo al suo stesso vivere tanto che anche nei capitoli dell’età adulta quella in cui sembra voler fare qualcosa, per sé, per un ipotetico futuro, in realtà è un uomo solo. Solo dentro una grande casa abitata da sua moglie, i collaboratori domestici, il figlio e la madre, ma nella quale si aggira tra i ricordi del primo matrimonio di Helen e una ricchezza che non comprende fino in fondo. Solo dopo un evento traumatico che lo obbligherà a tornare in Ungheria, solo nella sua stanza nell’appartamento con la madre e infine solo sempre.

Pare quasi che Szalay rifletta e porti avanti come monito l’incapacità di reagire in un mondo basato solo ed esclusivamente sulla fatalità della vita. Nulla può smuoverla e anche tutti i cambi di stato sociale, situazione sentimentale, composizione famigliare, non sono che piccole parentesi prima di tornare a ciò che si era destinati. A metà strada tra il rassegnato e il laconico l’uomo di Szalay è il disincanto incarnato, quasi a dire che ogni essere che nasce uomo è destinato nella carne a rimanere solo quello: carne, impulso, sopravvivenza.