Eka Kurniawan, Intan Paramaditha, Ugoran Prasad / Immaginario indonesiano

Eka Kurniawan, Intan Paramaditha, Ugoran Prasad, Gli schiavi di Satana, tr. di Antonia Soriente, ADD Editore, pp. 180, euro18,00 stampa, euro 9,99 epub

Sembra che in Indonesia nessuna manifestazione possa aver luogo senza prima consultare un mago della pioggia. In diverse aree del Paese i demoni, o i Bajang, creature soprannaturali della tradizione sundanese, sono considerati di casa nei villaggi, dove la loro presenza è esorcizzata o blandita, e comunque normata, attraverso procedure appropriate. La considerazione di cui gode l’horror indonesiano – che al cinema ha regalato filmaker come Tjut Djalil, Kimo Stamboel e Timo Tjahjanto (The Mo Brothers), Joko Anwar – non è insomma semplicemente ascrivibile al “global Gothic” di stampo occidentale ma vanta radici profonde nel folclore e nel patrimonio votivo dell’arcipelago. Assieme a un repertorio articolato, l’immaginario dell’orrore offre anche da queste parti un duttile strumento sociologico per intercettare le ansie e il rimosso che la violenza della storia recente e le trasformazioni della società – passata dalla trentennale dittatura di Suharto alla crisi finanziaria degli anni ‘90 all’affermazione come settima economia del pianeta – hanno depositato sul fondo limaccioso e spesso sanguinario dell’inconscio collettivo.

In Indonesia le short story rappresentano un genere letterario ampiamente popolare, almeno sulla carta stampata, perché i racconti sono in genere pubblicati su riviste e pulp magazine, prima di venire raccolti in volume. Schiavi di Satana, nessun riferimento al franchising cinematografico (Pengabdi Setan) rilanciato dieci anni fa da Joko Anwar, vede la luce nel 2010 come un’antologia originale, in grado raggiungere un pubblico letterario ampio e differenziato. Nel cast autorale figurano infatti: uno scrittore già noto al mondo anglosassone come il “Marquez indonesiano”, e cioè Eka Kurniawan; un’autrice con un’idea speculativa del genere horror come l’accademica femminista Intan Paramaditha; infine, un outsider multimediale come lo scrittore / performer Ugoran Prasad. L’operazione si presenta inoltre, almeno formalmente, come un omaggio alla letteratura di genere anni 70/ 80 e in particolare alla figura di Abdullah Harahap, autore – al tempo ancora vivente – di romanzi horror e thriller anche a sfondo erotico e sentimentale.

La riflessione sui cambiamenti che hanno investito la società indonesiana fa da sfondo a Il guardiano del cinema di Prasad, dove la chiusura dell’ultimo, storico cinematografo della provincia libera anche il fantasma sentimentale di un passato revenant. Altrove i tempi – passato, presente, futuro – si intrecciano e soltanto l’orrore può provare a districarli, fornendo il grimaldello per manlevare la dimensione patriarcale che lo stesso autore, ad esempio, fa emergere ne Il fantasma di Nancy e La maschera di sangue. Paramartha, una tesi di dottorato sul Frankenstein di Mary Shelley, affronta lo stesso tema dall’angolatora dell’emancipazione. Ciò che si tratti de La mossa conturbante della danzatrice Salima, che, perseguitata dall’anziano del villaggio, torna dalla morte come un demone vendicativo, o dei momenti interstiziali di socialità che la protagonista di La mela e il coltello trasforma in un rituale di affrancamento dalla normatività delle convenzioni sessuali. L’empowerment femminile è la chiave che nel contesto urbano contemporaneo permette di sfruttare senza troppi complimenti la fragilità dell’universale maschile rivelando, come in Porte e La bella e i sette uomini, l’inconsistenza del suo dominio.

In Gli schiavi di Satana compare per la prima volta anche “The Otter Amulet” (L’amuleto della mangusta), forse il racconto più forte dell’antologia e destinato in seguito a diventare uno dei più noti di Eka Kurniawan. In una dimensione molto vicina al realismo magico narra di un ragazzo che un altro giovane, Rohman, difende dai bulli della scuola. Finiti gli studi Rohman gli lascia un amuleto magico che lo proteggerà da qualsiasi assalitore. Assicurandogli l’impunità, l’amuleto risveglia però anche l’aggressività e la crudeltà del protagonista, rinnovando un ciclo di violento sadismo.

Appassionante anche per il lettore occidentale non iniziato alla letteratura dell’orrore asiatico, come il sottoscritto, l’antologia si presenta come un’operazione sofisticata e popolare al tempo stesso in quanto, come osserva Antonia Soriente nella postfazione “Tutti gli autori danno spazio a un immaginario che qualsiasi indonesiano di qualsiasi classe sociale o estrazione culturale possiede”.