Federico Pace / Quando si guarda un volto

Federico Pace, Ogni cosa aveva un colore. Un padre, un figlio e l'amore di chi resta, Einaudi, pp. 208, euro 15,50 stampa, euro 8,99 epub

L’ultimo libro di Federico Pace interseca le biografie di tre uomini che sono stati tagliati, in senso più materiale e fisico che metaforico, dalla Seconda guerra mondiale. Il padre del narratore, da bambino, quando aveva 5 anni, nel luglio del 1945, fu colpito dalle schegge di una mina. Il suo viso fu menomato e privato di buona parte della vista. Poco più di un anno dopo il celebre fotografo svizzero Werner Bischof, rimasto nella Svizzera neutrale durante gli anni della guerra, parte in bici per un lungo viaggio attraverso l’Europa a documentare l’umanità stravolta dell’immediato dopoguerra. Nel novembre del 1946 arriva in Olanda, e tra i ritratti scattati nella cittadina di Roermond c’è quello di un ragazzino con il volto martoriato da tante piccole cicatrici: un volto familiare, con un occhio fisso e immobile.

L’intreccio virtuale e letterario delle tre vite è una sorta di terapia del lutto che il narratore intraprende per assimilare la recente perdita del padre e nello stesso tempo approfondire la conoscenza del genitore, seguendo trame solo in apparenza incoerenti. Tutto comincia quando Pace inizia a interessarsi alla scalata del Klein Fiescherhorn, un picco delle Alpi Bernesi, che Bischof intraprende nell’estate del 1940, mentre era nell’esercito svizzero, di guardia in un villaggio di confine per monitorare eventuali e improbabili invasioni nemiche. Tra un turno e l’altro, insieme a un compagno, una notte compie la salita alla vetta, fotografando i paesaggi sublimi e non toccati dalla devastazione in corso in Europa. È una vicenda laterale alla guerra e alternativa per un uomo che in quel momento poteva permettersela.

Della guerra Bischof prende consapevolezza quando finisce. Fino a quel momento era stato un fotografo soprattutto naturalista e di moda. Attraversando Germania, Francia, Lussemburgo, Belgio, Olanda sembra assumersi il compito di mostrare le conseguenze del conflitto. Il ritratto del ragazzino di Roermond, scattato a colori in un’epoca dove la produzione fotografica era prevalentemente in bianco e nero, ne è una delle testimonianze più efficaci. Il narratore, alla ricerca di quel ragazzo olandese così simile al padre, contatta il figlio di Bischof (il fotografo è morto non ancora quarantenne nel 1954) alla ricerca di un nome e di una biografia: è un sosia, un doppio, che forse gli può permettere di conoscere meglio la vita di ombre e di contorni vaghi vissuta dal padre.

Di quell’evento cardine – lo scoppio della mina del 1945 – il padre non ha mai parlato con il figlio. Dopo mesi di degenza al Policlinico Umberto I di Roma, è tornato a casa, ha poi frequentato la scuola in un istituto per bambini ciechi, si è laureato in giurisprudenza, si è sposato, si è sottoposto in età adulta a un intervento per cercare di recuperare la vista, ha vissuto una vita che la si direbbe completa, come quella di tutti. Colpisce che il figlio non abbia mai neanche saputo esattamente che cosa il padre vedesse e cosa no. «Non ho mai saputo se mio padre, in quella sua zona di confine tra la vista e la cecità, negli anni della sua vita in cui ero ancora un bambino, percepisse ancora, e con quale grado di precisione, i colori. Non ho mai osato chiedergli cosa visualizzasse nella sua mente quando pensava al giallo della mimosa o al rosso delle tegole».

Pochissimo viene raccontato del rapporto in vita tra padre e figlio. La scrittura sgorga fuori tutta da quello spazio vuoto e bianco che si è creato postmortem. Non si tratta di un romanzo-memoir ma del racconto dell’identità di un padre ricostruita nel controluce delle esistenze di altre due persone che lui non ha mai incontrato (Bischof e il ragazzo di Roermond, che torna ad avere un nome insieme a un curriculum vitae e mortis).

Sono tantissime le cose di cui non parliamo con le persone a noi più vicine quando queste sono ancora in vita, le curiosità che non osiamo soddisfare e i dettagli che non notiamo. Gli eventi che hanno sconvolto le loro vite ci appaiono di poco conto, quasi trascurabili, li accettiamo con disinvoltura – pensando che così debba essere anche per loro, tanto più se sono passati anni – e ci accontentiamo di conoscerli attraverso narrazioni di seconda mano. Quegli eventi ci appaiono smisuratamente grandi e gravi soltanto quando ci ritroviamo nel volume vuoto del lutto. Quando quelle persone non sono più e ciascuno a modo proprio cerca di colmare la loro assenza. In questo caso, la ricerca a ritroso di una memoria è stata innescata dalla forza di un volto: un viso squadrato ricoperto di minuscole cicatrici, il labbro rosso, l’espressione né triste né felice. Dall’atto del guardare: del fotografo che ha scattato la foto, del narratore che ha quasi creduto di vedere ritratto il padre, di chi da un certo giorno in avanti non ha visto più.