Gertrude B. Bennett / L’invenzione del Multiverso

Gertrude B. Bennett, Le teste del cerbero, tr. Silvia Salis, 451 edizioni, pp. 218, euro 16,00 stampa, euro 8,00 epub

Gertrude Mabel Barrows, classe 1884, scrittrice di Minneapolis emigrata a Philadelphia al seguito del marito inglese, il giornalista Stewart Bennett, è figura pionieristica e seminale del romanzo fantastico di intonazione dark. La sua intera produzione di romanzi e novelle vede la luce in pratica nel giro di tre anni, tra il 1918 e il 1920, con lo pseudonimo di Francis Stevens, influenzando Abraham Merritt e H. P. Lovecraft, entrambi suoi estimatori e followers dichiarati. Per anni il suo pseudonimo fu anzi erroneamente attribuito proprio al vate di Providence.

Le teste del Cerbero (1919), uscito a puntate nel 1919 sul pulp-magazine The Thrill Book, viene invece pubblicato in volume solo nel 1952 da Polaris Press. Al di là della prosa, abbastanza antiquata e manieristica, il romanzo oggi viene riconosciuto come “la prima volta” di una serie di incredibili espedienti narrativi che rivelano la profonda modernità di questa autrice e la sua ascendenza in seno al genere fantastico.

Innanzitutto il romanzo, che ha per protagonisti tre amici – l’americano Drayton, ex avvocato, povero e depresso; l’irlandese Terry, esuberante, forzuto, ricchissimo; sua sorella Viola, intelligente, volitiva, sensibile –, attraversa disinvoltamente i confini di fantasy e science-fiction. Dall’antiregno incantato e weird di Ulithia, dove i tre finiscono dopo aver incautamente manipolato una misteriosa polvere grigia, descritto in un segmento di 20 pagine che offre forse l’episodio più visionario e fantastico di tutto il romanzo, si passa infatti nel regno dispotico di una futuristica Philadelphia del 2118. Anche qui Bennett ci stupisce, anticipando per molti aspetti il canone della distopia del ventesimo secolo: la città, isolata dal resto del mondo, è infatti sovrastata ovunque dall’immagine del suo Grande Fratello, il fondatore William Penn. A governarla in sua vece nel terrore e con pugno di ferro è però una cricca di oligarchi corrotti (“I servi di Penn”) che assumono beffardamente i nomi di virtù cardinali vere e immaginarie (Misericordia, Forza, Giustizia, etc.). Per rabbonire il popolino, una massa di individui senza nome ma con un numero da portare sempre in vista su un vistoso bottone della giacca, tenuti nella più oscura ignoranza pena la morte, vengono periodicamente messe in palio cariche onorifiche (Bellezza, Astuzia), ma anche questo gioco è truccato e il prezzo della sconfitta è ovviamente una morte spaventevole (vi ricorda qualcosa?).

Per il clima politico americano di quegli anni è anche interessante osservare la ricostruzione storica che Bennett fa delle origini di questa Philadelphia dittatoriale: al termine di una serie di guerre mondiali (al plurale, ndr), l’America, spaventata da un’Europa ormai in preda al comunismo, si consegna ai pacifisti che decretano la fine del suo “destino manifesto” e l’inizio di un’era di isolazionismo che porta le città a un autogoverno di stampo neo-medioevale.  La Philadelphia del 2118 non differisce, tranne che nella bizzarra morfologia del potere, da quella di due secoli prima, perché il progresso è stato congelato e ogni passo avanti (o indietro) nel costume o nella scienza viene severamente punito.

Questa stranezza è anche la chiave dell’ultima e più notevole innovazione introdotta dall’autrice. Le teste del Cerbero, non è infatti una storia di viaggi nel tempo, di quelle che sulla scia della The Time Machine di Wells (1895) affollano la letteratura popolare del primo Novecento (comprese Le meraviglie del 2000 di Emilio Salgari). Lo dà probabilmente a pensare al lettore dell’epoca, stordito per quattro quinti del romanzo da un caleidoscopio di colpi di scena e di trovate immaginifiche, ma poi opta per una spiegazione totalmente inedita per il pulp del 1920: il multiverso. Con un’intuizione forse rubata a William James, ma, a scanso di equivoci, subito sottratta al piano psichico e traslata in quello concreto e narrativo dei “mondi paralleli, Bennet qui è avanti di qualche decennio sulla fantascienza, che deve aspettare almeno gli anni ’30 per trovarne una successiva versione, per non dire della fisica quantistica. E solo nel finale cala il suo asso, tra uno spiegone a base di elettroni e una misteriosa vibrazione cosmica: il mondo della Philadelphia distopica non appartiene affatto al futuro ma a una delle tante realtà che, al pari della nostra, condividono lo stesso spazio. E che possono nascere o scomparire in qualsiasi momento.‎