Il premio mancato a Adania Shibli

Leggere o tornare a leggere Un dettaglio minore (La nave di Teseo, 2021), il romanzo di Adania Shibli al centro di controversie e premi mancati dopo gli attentati del 7 ottobre contro i civili israeliani e i bombardamenti di Gaza. Perché è un libro straordinariamente bello e perché è un povero Paese quello che ha paura della voce degli scrittori.

Nel 1949 una truppa di soldati israeliani in pattuglia nel territorio del Negev, alla ricerca di infiltrati e nemici, si imbatte in un gruppo di beduini che uccide all’istante, per poi scoprire che non hanno armi di nessun genere. Rimangono vivi una giovane ragazza e un cane. La ragazza viene violentata dal gruppo di soldati e uccisa nel giro di quattro giorni. Il cane latra sconsolato per tutto il tempo.

Venticinque anni dopo l’abbaiare incessante di un altro cane sveglia una giovane donna palestinese, ossessionata da quello stupro avvenuto esattamente il giorno della propria nascita. Si metterà alla ricerca del luogo in cui è avvenuto. Per dare voce alla vittima? Per riparare e rendere giustizia a un terribile torto? Il suo progetto non è chiaro neppure a se stessa e nel corso del suo viaggio viene assalita dal dubbio che “al mondo d’oggi le persone devono affrontare una tale mole di sofferenze che non c’è alcun motivo per andare a cercarne delle altre nel passato.”

Queste le due parti di cui si compone Un dettaglio minore (Tafṣīl thānawī), il breve terzo romanzo della scrittrice palestinese Adania Shibli: dittico formalmente impeccabile in cui i dettagli si accumulano, replicano e cambiano di segno nelle due sezioni del libro.

Dettaglio è il paesaggio, con la sabbia, il cielo, le colline, il mare: gli elementi che fanno una terra; senza dubbio il terzo protagonista del romanzo. Se nella prima parte il paesaggio di colline sembra deserto e il comandante dei soldati agisce nella convinzione che “non esiste nulla a parte gli infiltrati, alcuni beduini e i dromedari” (evidentemente tranquillamente eliminabili), nella seconda parte del libro il paesaggio è fratturato e cicatrizzato da continui check point presidiati, cambi di strada, muri, villaggi scomparsi, nuovi insediamenti. Il comandante militare nel 1949 lo perlustra ogni giorno mosso dalla convinzione che “è in nostro potere (…) dare a questi vasti territori la possibilità di fiorire e popolarsi, impedendo che continuino a essere come sono adesso, aridi e disabitati”; venticinque anni dopo la ragazza di Ramallah constata l’ordinarietà di vivere in “in un posto dominato dal tumulto di un’occupazione militare e dalle continue uccisioni. Far saltare in aria un edificio [vicino l’ufficio dove lavora] è soltanto uno dei tanti esempi”. Un ‘vuoto’ e un ‘pieno’ che si confrontano e contrappongono.

Altro dettaglio del romanzo è il tremore dei corpi. Quello del comandante avvelenato dalla puntura di un ragno, quello della ragazza protagonista della seconda parte che trema di paura per tutto il tempo. Possiamo facilmente comprendere il tremore della ragazza, che è obbligata a viaggiare con la carta d’identità di una amica che detiene il permesso per spostarsi da un settore all’altro, protetta solo dal pregiudizio razziale per cui tutte le facce dei palestinesi sono uguali agli occhi dei soldati e dei poliziotti dei check point. Più enigmatico il tremore del comandante che evoca l’impossibilità di tenere tutto sotto controllo.

Dettaglio è anche l’utopia di Nirim, uno dei primi kibbutz sul cui recinto è scritto “Non vincerà il cannone, ma l’uomo”. È uno dei fondatori del kibbutz, Nirim, a raccontare alla ragazza di Ramallah l’utopia che muoveva il gruppo di ebrei che l’hanno fondato, il desiderio di vivere in pace con tutti gli abitanti del deserto, il rammarico della guerra che ha distrutto e allontanato i legami fra le persone. Il vecchio colono viene descritto senza acrimonia alcuna, anzi con un po’ di tenerezza. Shibli lascia a noi decidere anche dei pericoli delle utopie e della possibilità che diventino ‘cattive utopie’.

Ma il dettaglio, e centro abbacinante del romanzo, è lo stupro e l’uccisione della ragazza che l’autrice nelle due sezioni del romanzo avvicina e allontana attraverso scelte stilistiche, narrative ed etiche magistrali. Cosa pensi il comandante di questa violenza provocata da lui è deducibile unicamente dal suo comportamento, totalmente incapace di empatia con chiunque – uomini o animali -, ripetitivo fino alla noia nel lavarsi, cambiarsi, fiutare odori, in una ossessione totalizzante che cerca di igienizzare e sterilizzare l’intera vita. Dettagli e atti che l’autrice ripete con una minuzia e una ripetizione fredda e analitica sorprendente che tiene il lettore sull’orlo dell’orrore: Shibli fa la scelta artistica di non indulgere sulla scena dello stupro, non lo descrive, schivando così completamente il pericolo di pornografia e di spettacolarizzazione del dolore verso cui l’argomento rischia di deviare. Non è autocensura o moralismo. Lo stupro è tanto più forte se lo si legge insieme alla scena agghiacciante in cui il comandante spoglia la ragazza beduina per lavarla con un getto di acqua fredda davanti a tutti i soldati. La ragazza non è una persona (non lo è mai stata agli occhi del comandante e dei soldati), è semplicemente una cosa fastidiosa – una delle ‘sue cose’ (la meno importante) che in continuazione il comandante mette in ordine e scruta alla ricerca di insetti o ragni.

La distanza dallo stupro è però mantenuta anche nella seconda parte del libro. La ragazza di Ramallah che viaggia, disorientata dalla nuova geografia della Palestina rappresentata in modi diversi a seconda delle carte geografiche che consulta, alla ricerca del luoghi dove lo stupro è avvenuto capisce che non è in questi luoghi che può trovare la verità e dare voce al punto di vista della ragazza violentata e uccisa, solo dentro di sé può trovare forse una risposta. Il libro si chiude e interrompe su questo desiderio di empatia e connessione temporale, si chiude, come in uno scherzo crudele, con un dettaglio quasi banale nella sua brutale ripetizione.

La scrittrice si ferma con pudore e spietatezza sull’orlo del cuore bruciante del romanzo e rifiuta di indirizzare il lettore, mostra piuttosto i limiti del desiderio di poter dare voce al dolore degli altri. Raccontarlo e “impossessarsene” è una sorta di privilegio: Adania Shibli sembra così dare ragione a Zadie Smith che a proposito di uno dei protagonisti del suo ultimo romanzo L’impostore dice che ‘noi non abbiamo il diritto su tutto il dolore delle persone’. Shibli ci lascia il dilemma sulla nostra capacità personale e politica di poter riscrivere e riparare i torti del passato: Un dettaglio minore, con una scrittura impassibile che non manca di umorismo nero, volutamente non è mai didattico e non offre un giudizio preconfezionato ma consegna al lettore un quadro quasi astratto seppure concretissimo su cui riflettere.

Pubblicato in Italia due anni fa da La nave di Teseo (tr. di Monica Rutto, pp. 144, euro 17,00) il libro è ora tornato al centro di polemiche in tutta Europa perché la Fiera del libro di Francoforte ha annullato la cerimonia per il premio al romanzo (premio che invece è stato dato) in seguito all’attacco di Hamas ai civili israeliani del 7 ottobre. Per protesta la casa editrice inglese ha deciso di rendere disponibile gratuitamente la versione ebook di Minor detail.

In questi giorni sicuramente Un dettaglio minore balza fuori dalle sue righe: lo stupro della giovane beduina entra in assoluta risonanza con gli stupri e le violenze sui corpi delle giovani donne uccise e rapite al rave solo perché non palestinesi mentre il kibbutz di Nirim è uno dei luoghi invasi da Hamas. E poi sì Gaza è bombardata giorno e notte. È quindi un libro politico? Sicuramente lo è ma lo è anche perché spiazza completamente le aspettative di lettori pigri e bisognosi di essere rassicurati sul giusto e lo sbagliato.

Infine è miseramente povero quel Paese che ha paura del pensiero degli intellettuali e dell’opera degli artisti e degli scrittori.