Il paradosso del pluralismo

Gabriele Giacomini, Potere digitale. Come internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia, Meltemi, pp. 350, euro 24,00 stampa

Da un lato le nuove tecnologie della comunicazione, nel cui mare nuota oggi la politica; dall’altro lato la democrazia, che non può fare a meno di interrogarsi; al centro le solite domande ma fatte bene: Internet come modifica la sfera pubblica e il dibattito democratico? I partiti e i media di massa sono ancora i protagonisti di questo discorso? E se no, quali sono i nuovi centri poteri con cui dobbiamo fare i conti?

Nel rapporto tra media e politica si distinguono in genere tre fasi: la prima riguarda gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, è l’età del comizio e dalle campagne sul territorio; la seconda, affermatasi definitivamente alla fine degli anni Settanta, è quella della centralità televisiva; la terza, nasce alla fine degli anni Novanta, con il boom di Internet e poi degli smartphone.

Prendendo a prestito i concetti di sfera pubblica e di democrazia dialogica sviluppati da Jürgen Habermas, Gabriele Giacomini in Potere Digitale si chiede come queste definizioni possano funzionare oggi, nelle società della trasformazione digitale. Lo fa adottando il metodo delle interviste e rivolgendo le sue domande a un campione di politologi, sociologi, ricercatori, esperti di comunicazione politica come Ilvo Diamanti, Luciano Floridi, Paolo Mancini, Angelo Panebianco, Gianfranco Pasquino, Slavko Splinchal, Nadia Urbinati, John O’Sullivan, Michele Sonice, Gianpietro Mazzoleni, Sara Bentivegna.

Il primo tema sollevato dal saggio riguarda i nuovi intermediari, che sul web stanno cambiando radicalmente il modo in cui l’informazione circola e le notizie si aggregano grazie alle piattaforme social e al fenomeno degli influencer. Il loro potere si può misurare con la capacità di definire l’agenda setting e la gerarchia delle notizie, una prerogativa considerata a lungo esclusiva dei mass media. Se il filtro rappresentato dagli l’opinion leader sviluppa un’influenza locale, specifica, all’interno della singola bolla, il vero potere è oggi esercitato dalle piattaforme come Facebook o Twitter, in definitiva il più grande esperimento di psicologia sociale della storia. I loro algoritmi hanno in parte sostituito la tradizionale mediazione giornalistica, ereditando anche il tema della ‘neutralità’ (che non esiste, ma alla fine il filtro software non è così diverso da quello editoriale, se non perché basato sui nostri dati personali).

Tutto bene, o forse non proprio, ma alla fine su Internet o, meglio, sui social, è possibile un confronto politico-culturale, un pluralismo aperto e dialogante o solo una rissa senza fine? Va detto che se la ‘frammentazione politica’, cioè in pratica il pluralismo tout court, è in genere considerato un pregio e non un difetto per la democrazia, online non sempre funziona così; più spesso a livello psicologico prevale la cosiddetta ‘euristica della conferma’ (confirmation bias), definita come “la tendenza ad accettare le informazioni che sono aderenti al sistema di credenza dell’individuo, sminuendo o considerando meno credibile ciò che risulta dissonante”. Il ‘paradosso del pluralismo’ si traduce nel fenomeno delle ‘echo chambers’, quando nella bolla social che protegge ognuno di noi riverberano all’infinito solo le notizie e i meme preferiti, escludendo dal radar tutto ciò che metterebbe in discussione la nostra visione del mondo. Una tendenza come è noto premiata dall’algoritmo (per esempio, di Facebook) e accentuata dalla scarsa alfabetizzazione digitale che alla fine si riflette anche nella bassa qualità del confronto politico al “Bar Facebook”, come sottolineano diversi intervistati.

Una seconda euristica fa leva poi su un bisogno ancora più naturale, quello di socializzare, volgarmente detto ‘effetto gregge’. La portata del contagio sociale e della pressione del gruppo per quanto riguarda i compiti cognitivi della persona sono noti già a partire dagli anni Cinquanta, ma nei social entrambi i livelli, psicologico e sociologico, entrano in gioco facendo leva sull’identità digitale dell’individuo e sulla rete sociale delle sue ‘amicizie’. Gli esseri umani scelgono di conformarsi ai comportamenti delle persone vicine a loro, soprattutto in presenza di situazioni di incertezza o che non riescono a padroneggiare. Come dimostrerebbe una ricerca recente dell’IMT di Lucca, in rete le news polarizzate in senso ‘alternativo’, o ispirate a una narrazione ‘complottista’, si diffondono in genere più lentamente, ma risultano poi più persistenti nel tempo rispetto ai post originati dalla divulgazione scientifica ‘seria’, dalle fonti accreditate o dal debunking (a sua volta, ovviamente ‘di parte’ e spesso non esente da bias cognitivo), che dopo una vampata iniziale di viralità si spengono rapidamente. Malgrado ciò, l’analisi dei gruppi mostra che anche tra le comunità fortemente polarizzate esiste uno scambio, per quanto limitato, una zona grigia, un’area trasversale alla massa dei like e dei commenti. Malgrado le manipolazioni, l’emotività, gli insulti, osserva Giacomini, le conversazioni in rete non si presentano poi così diverse da quelle in un barber shop inglese del Seicento – la metafora usata da Habermas per descrivere la ‘sfera pubblica’ – dove la gente andava per chiacchierare, azzuffarsi, capire.

Nell’ultima parte del saggio l’autore ‘spacchetta’ le opzioni rimaste sul tavolo: tecnocrazia, democrazia rappresentativa, democrazia diretta. Delle tre, la democrazia rappresentativa non se la passa bene. A partire dagli anni Novanta la mondializzazione ha promosso, sul modello dell’Unione Europea, una governance tecnica o comunque post-politica, e il processo democratico è nei fatti sotto tutela, almeno per quanto riguarda le decisioni strategiche. Il digitale ha risvegliato il sogno della democrazia diretta, che, sul serio o per finta, è stato anche quello dei ‘partiti piattaforma’, descritti da Paolo Gerbaudo in The digital party, il modello dei Pirati, di Podemos e del Cinque Stelle, oggi in fase di ripensamento o di crisi avanzata.

Una democrazia rappresentativa ‘aumentata’, cioè mista, con premurose iniezioni di democrazia diretta digitale, è invece la strada che hanno cominciato a sperimentare in Islanda, Finlandia, Estonia, UK. Per lo più si è trattato di mezzi flop, ma siamo ancora alle prime battute, anche demograficamente nativi digitali e millennials sono ancora una minoranza. Secondo Sorice e De Blasio un’autentica democrazia digitale potrebbe nascere mettendo a prodotto la complessità e i tempi lunghi del processo deliberativo con le nuove tecnologie, guardando oltre la mera funzione plebiscitaria di referendum. A queste condizioni potrebbe diventare uno strumento importante per estendere i tradizionali diritti di cittadinanza. O restituire alcune decisioni allo spazio pubblico, promuovere la partecipazione delle minoranze e dei gruppi socialmente più deboli. Per ora ha funzionato bene fuori dalle istituzioni. Tutti movimenti di questi ultimi anni – da Occupy a Hong Kong ai Gilet Jaune, dalle primavere arabe all’autunno cileno – sono nati senza un leader grazie agli smartphone e alla rete, prima di riversarsi nelle piazze e nelle strade. L’esito delle mobilitazioni, ovviamente, è un’altra storia.