Ivan Bunin / Il sottile equilibrio fra prosa e poesia

Ivan Bunin, Lika, tr. di Andrea Tarabbia, Medhelan, pp. 224, euro 20,00 stampa

Una qualità poetica intride la prosa di Ivan Bunin, una sensibilità che la rende permeabile a qualsiasi pur minimo dettaglio. Sin dalla prima pagina di Lika, quinta e ultima sezione finalmente riunita alle quattro parti che compongono La vita di Arsen’ev, il protagonista si rallegra per quella “festa di impressioni nuove” che il destino gli ha riservato. Il libro acquisisce una valenza diaristica, in quanto ogni annotazione è ostacolo alla transitorietà dell’esistere. L’arrivo in stazione del feretro dello zar Alessandro III balena nell’incipit, così come aveva concluso il precedente libro. Si tratta di una fugace impressione mortifera, subito sostituita da quella di una più modesta locomotiva che riempie di commozione l’anima di Arsen’ev. Il movimento lo ammalia ponendolo in agitazione. La velocità è antidoto alla sofferenza. La destinazione non ha importanza, tanto da sceglierla a volte per la sola musicalità del suono. La solitudine del vagone e il trascorrere del paesaggio lo riempiono di gioia. I campi bui, silenziosi gli appaiono estranei al mondo. Il fascino della prosa di Bunin è tutto qui, nel restituirci sensazioni che anche noi abbiamo certamente provato, nel trovarci soli con noi stessi in territori ignoti. «Avevo di nuovo i sensi in festa: come tutto era terribilmente familiare e insieme nuovo – l’oscurità della campagna, la miseria, l’indifferenza!»

C’è il mistero dell’esistenza in queste parole. Arsen’ev osserva ogni cosa per imprimersela nella memoria, per non trascurare neppure un briciolo di vita. Agisce con incoscienza, come trascinato da un impulso irrefrenabile. La bella e volubile Lika lo conquista. Rapito, si compiace di vagare per antichi cimiteri, coltivando una vocazione autunnale e romantica. La musica, piacere doloroso, amplifica il godimento dell’amore. Il ticchettio di una sveglia evoca pensieri di morte.  Una tristezza dolce e amara lo avvolge. “Dov’è tutto questo adesso?”, si domanda tornando con la memoria a quell’amore acerbo, ispirato alla relazione giovanile dell’autore stesso con Varvara Pashchenko. L’atto di scrivere diviene ricerca di una felicità irraggiungibile, proprio perché inquinata da una costante insoddisfazione. Un racconto di Čechov lo rende lieto e invidioso al tempo stesso. Il suo carattere è minato da una costante insoddisfazione. L’osservazione diviene ossessiva nella sua pretesa di non dimenticare neppure un dettaglio, per poterlo consegnare alla pagina scritta. La percezione sensoriale del mondo si fa dolorosa, perché effimera. Una biblioteca in abbandono veicola un enorme senso di tristezza, perché il suo contenuto non sembra avere importanza per gli uomini.

Bunin, invece, crede con tutte le sue forze nel potere della parola. Per questo appare costantemente in bilico fra la prosa e la poesia, fra la vocazione lirica e quella del minuzioso osservatore. Come accade nella biblioteca, una chiesa vuota e silenziosa gli procura piacere. Sono questi i luoghi dove si sente a proprio agio, nell’oscurità più intima e inviolata. Vede un vecchio accendere alcune candele, e si rende conto che questi appare “indicibilmente stanco della nostra incomprensibile esistenza terrena e dei suoi misteri”. Bunin riesce a farci percepire gli enigmi che ci circondano descrivendo la concretezza delle cose. Un divano in una stanza buia gli appare come un oggetto fatale. I tetti stagliati nella notte, affascinanti in maniera incomprensibile, gli trasmettono un senso di calma. La sera sfuma nel blu, come in un dipinto di van Gogh, e tutto diviene dolce e accogliente. Indaga le schiene dei passanti, cercando di cogliere qualcosa delle loro vite. A volte dubita del suo reale interesse per gli altri, in quanto percepisce prepotente il richiamo del proprio io. Questa è la materia della sua prosa, ineffabile eppure così commovente. In lui ritroviamo il nostro essere uomini, la nostra forza e la nostra fragilità. La paura attanaglia il narratore quando prova la sensazione di essere separato da ciò che lo circonda, di non avere scopo alcuno nell’esistenza. La salvezza è nella ricerca della felicità, unico argine contro l’incomprensibile.

Arsen’ev si trova a proprio agio nella Piccola Russia, ovvero nell’attuale Ucraina, un luogo colmo di passato, di canzoni e di leggende. Il gelo del nord lo spaventa, mentre vagheggia i paesaggi assolati della Crimea. Canti cosacchi balenano nell’aria, voci di guerrieri che lottarono per l’indipendenza dell’Ucraina; passi che oggi, con la guerra in corso, divengono saturi di significato. “Niente mi basta più”, dice Arsen’ev, ed è in questa bramosia di vita che risiede il fascino del libro. Arricchisce il volume una significativa silloge di quattordici poesie, dalle quali traspare il mondo poetico limpido, toccante e del tutto peculiare di Bunin.