Tra i mestieri votati all’equivoco, l’architetto è il più sospetto: non si capisce mai se disegni edifici o autoritratti. In lui cova sempre qualcosa di megalomane e fragile, come se dietro squadra e compasso stesse l’infantile bisogno di ammirazione. Il luogo comune lo vuole demiurgo capace di cattedrali di vetro, ma anche burocrate che riduce la vita a metri cubi, planimetrie e regolamenti.
Jacques Sternberg, nel libretto L’architecte (1959), ne fa la parodia definitiva. Prima ancora che arrivassero le archistar, smonta l’architetto medio, rispettabile e borghese, che confonde progetto e rovina, costruzione e catastrofe. Con sarcasmo secco mostra che dietro la maschera del genio costruttore si nasconde l’improvvisazione: si diventa architetti per caso e si procede con identica arroganza nell’innalzare e nel demolire.
Il suo Architetto disegna manicomi che fanno impazzire i medici e rinsavire i malati, accademie militari pensate come palestre per chiunque voglia farsi la guerra, città-formicaio di grattacieli compressi contro la miseria abitativa. Con la stessa sicumera innalza edifici o li vede crollare, finché, dopo aver disseminato disastri con il beneplacito delle istituzioni, non si rifugia nello spazio, a infastidire perfino gli alieni. Prova a cambiare vita, ma la vocazione al delirio lo perseguita: condannato a progettare sempre, anche quando il progetto è solo la caricatura dell’umana follia.
Le illustrazioni di Roland Topor rendono la diagnosi ancora più spietata. In una, l’architetto spalanca le braccia come un Vitruvio da ufficio, ridicolo e impotente: la costruzione di nuovi edifici è paragonata alla caccia all’aria col retino da farfalle. In un’altra, un blocco di corpi nudi compressi sostituisce i mattoni: l’edilizia diventa sopraffazione, cantiere sulla pelle degli altri. In una terza, un architetto tricefalo moltiplica ordini e gesti contraddittori, mentre sorride beato: la caricatura della sua incoerenza elevata a sistema. E così via.
Ne esce una figura tragicomica: demiurgo fallito, narcisista goffo, burocrate del calcestruzzo. Un professionista che impara il mestiere in una notte e due giorni dopo si proclama progettista planetario, un discendente meno umile dei due cretini universali Bouvard e Pécuchet. Sternberg lo inchioda in lampi brevi e corrosivi, coerenti con la sua poetica del testo corto contro i volumi ponderosi. Non a caso, pochi anni più tardi, sarà tra i fondatori del Movimento Panico insieme a Topor, Arrabal e Jodorowsky: un’avanguardia votata al grottesco, all’assurdo e alla brevità che rifiutava la seriosità culturale a favore di eccesso, humour nero e caos creativo.
L’architetto è un librino raffinato, che unisce l’eleganza tipografica all’ironia velenosa del testo e al segno grottesco di Topor. Dopo più di sessant’anni resta intatto: l’architetto continua a oscillare tra il sogno di dare forma al mondo e la condanna a trasformarsi in caricatura.