Poche volte accade una fusione tanto squisita e lirica di esperienza, percezione e letteratura come nel tessuto della scrittura di Maggie Nelson: la voce dell’io si addentra in un percorso di dialogo con il sé e con l’Altro, l’esterno, eppure non viene mai dimenticata l’universalità di certe sensazioni, di certi inevitabili dolori. È questa dialettica tra l’io e il noi a racchiudere il significato ultimo dei testi autobiografici e simili: se spesso quelli più contemporanei tendono a trascurarla, Nelson la squaderna sapientemente nelle sue sperimentazioni in prosa e poesia, in Gli argonauti (il Saggiatore, 2016, tr. Francesca Crescentini), in Bluets (2023) e Pathemata (2025), pubblicati entrambi da nottetempo nella traduzione di Alessandra Castellazzi.
Pur essendo leggibili in modo indipendente, Pathemata prosegue l’esplorazione di Bluets di una forma frammentaria, in cui trovano spazio eventi e riflessioni in un racconto a tratti diaristico, a tratti onirico. Nel meno recente il colore blu è il filo conduttore di abbandoni, malinconie e ossessioni; nell’altro è invece il dolore cronico alla mascella a guidare una narrazione più intima, tra i momenti della quotidianità e l’andamento allucinato e macabro dei sogni.
Pathemata dal greco antico, scelto perché sono pagine di “cronaca” e “cronologia” del dolore, come le definisce Nelson stessa. Da bambina affetta da problemi del linguaggio e da adulta costretta a convivere con una patologia dai connotati non chiari, forse legata alla lingua, forse al palato, il risultato è una via crucis di visite specialistiche e cure inutili, di diagnosi errate capaci solo di accrescere frustrazioni e paura, di isolare nella sofferenza. E soprattutto, la strisciante consapevolezza di essere un’anomalia, un corpo da sempre messo alla prova.
Nelson si osserva mentre si arrovella sul dolore, guarda bocche e corpi altrui. Siamo nel 2022, gli strascichi dei periodi di quarantena per il Covid-19 si fanno ancora sentire, sono rimasti i segni della necessità di imparare a gestire il malessere nella solitudine, con i propri mezzi, anche adesso che cominciano a diffondersi i vaccini e la popolazione è divisa tra fiducia e diffidenza. Nelson assiste allo sgretolamento del suo rapporto con H., con cui fatica a comunicare, quasi avessero ormai due vite parallele, e segue da lontano il peggioramento delle condizioni fisiche di C., amica fondamentale nella sua vita, da anni prigioniera di un corpo devastato da un incidente. Nel frattempo, si occupa del figlio, tentando di gestire le insicurezze da genitore, e affronta finalmente la perdita del padre.
È un flusso di coscienza continuo, una conversazione con un’interiorità ammaccata, arrabbiata. Non esiste passato e non esiste futuro, non c’è differenza tra realtà e incubo, bensì solo l’eterno presente della diegesi, il qui e ora. Nelson s’inabissa nel lutto e nel senso di fine, nei limiti dell’essere madre e nel timore di non essere all’altezza, per poi riportarsi alla luce aggrappandosi al mondo esterno, alla volontà di guardare oltre e recuperare la “mortificante abbondanza del raccontare”. Così arriva ad affermare: «a un certo punto devo pur avere fede che tutto quell’amore supererà o almeno compenserà i difetti e gli sbagli, perché l’amore è ciò che ci rende sicuri al di sopra e al di là della sicurezza».