Meat is murder

AA.VV., Essere vegetariani nell’antica Grecia, a c. di e tr. F. Chiossone, Il Nuovo Melangolo, pp. 70, €7,00 stampa

recensisce MARIASILVIA IOVINE

Tu mi domandi per quale ragione Pitagora si astenesse dal mangiare carne. Io piuttosto mi chiedo meravigliato in quale occasione e con quale stato d’animo un uomo toccò per la prima volta con la bocca il sangue versato, e unì le sue labbra alla carne di un animale morto, e imbandendo tavole con corpi morti e rancidi ebbe anche l’ardire di chiamare prelibatezze e alimenti quelle membra che poco prima muggivano e gridavano, si muovevano e vivevano.

Nella voracità del mondo moderno, la (ri)scoperta di filosofie e religioni più o meno antiche – che alcuni classificano a torto come «mode» – è un tentativo di ottenere quella serenità di cui l’età contemporanea è così disperatamente priva.

Dato il ruolo centrale dell’alimentazione nella vita umana, il vegetarianismo (con le sue varianti) è forse lo stile di vita più noto: le ricadute positive sulla salute del singolo, al netto della disinformazione in merito, si accompagnano spesso a riflessioni di natura ecologica ed etica. La scelta di non nutrirsi di carne è stata presa in considerazione in molte culture, fin dai tempi dell’antica Grecia: a questo proposito, Il Nuovo Melangolo propone, per la collana Nugae, i due discorsi in cui si divide il De esu carnium, a opera di Plutarco (Cheronea, 47 d. C. – Delfi, 126 d. C. circa), e un brano di Porfirio (Tiro, 234 d. C. – Roma, 305 circa) tratto dal De abstinentia. In entrambi gli autori, la scienza si intreccia con la metafisica e la cosmologia, tipica di una cultura che, come direbbe Martin Heidegger, nasce nella costante interrogazione sul senso dell’Essere.

La binarietà dell’uomo, scisso tra la sua origine divina, spirituale, e la vita materiale, trova un suo parallelo nella contrapposizione fra mythos (μύθος) e logos (λόγος), fra un’indagine il più possibile scientifica e il progressivo scivolare nel mito, come avrebbe fatto quasi due millenni dopo Carl Gustav Jung. Entrambi gli autori ritengono che il consumo di carne sia innaturale per l’uomo, sia dal punto di vista fisico che morale e, di conseguenza, spirituale. In particolare, Porfirio dedica molto spazio alla descrizione dei costumi degli Spartani, citando un’altra opera di Plutarco (la biografia di Licurgo nelle Vite parallele, Βίοι Παράλληλοι): il divieto del consumo di carne, scrive Porfirio, permise di bandire il lusso e l’ingiustizia da Sparta, sostenendo invece la morigeratezza dei costumi, la condivisione, e insomma portando alla nascita di «cittadini più coraggiosi, più temperanti e più inclini alla rettitudine».

Anche Plutarco fa derivare la corruzione morale dal consumo di carne («E dopo aver fortificato a poco a poco la loro brama insaziabile, gli uomini si rivolsero all’assassinio del loro simili, alle guerre e alle stragi»), in quella visione del mondo che fin da Talete vedeva «tutto pieno di Dèi», intendendo, nel miglior stile del politeismo greco, la sacralità di tutti gli enti, più che l’idea panteistica. D’altronde, nell’antica Grecia il vegetarianismo è stato uno dei pilastri dell’Orfismo prima e poi del pensiero di filosofi come Pitagora ed Empedocle, seguaci della dottrina della metempsicosi (o meglio, metemsomatosi) sulla reincarnazione delle anime, necessaria alla purificazione e descritta, tra gli altri, anche da Platone, nel libro X della Repubblica (Πολιτεία) nel noto «Mito di Er».

Essere vegetariani nell’antica Grecia permette di conoscere l’assoluta modernità del pensiero greco e, indipendentemente dalle scelte personali, può (anzi: deve) essere un’occasione di riflessione e arricchimento.

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