Ci sono due elementi che ho ritrovato nel nuovo romanzo di Michael Bible, Goodbye Hotel: il ripercorrere una memoria dolorosa che è nitida e confusa al tempo stesso, e lo sguardo pieno di tenerezza. La memoria è misteriosa, alcune cose sono chiare e indubitabili nel ricordo, come fossero scolpite nella pietra; altre sono vaghe, nebbiose, incerte. Forse proprio per questo abbiamo bisogno di rivedere, rileggere il nostro passato ancora e ancora, sperando che un giorno il senso che andiamo cercando diventi evidente. Il protagonista di Goodbye Hotel – senza bisogno di spiegare perché visto che il nome del posto in cui si trova parla anche per lui – fa proprio questo, ritorna al suo passato e lo scrive, perché anche scrivere aiuta a trovare un senso (o a inventarselo).
C’è stato un incidente d’auto, una notte, a Harmony (la stessa città dove era ambientato L’ultima cosa bella sulla faccia della terra), i due ragazzi tornavano da una festa, François era ubriaco e innamorato, Eleanor era ancora più ubriaca, non si sa quanto innamorata. Non avevano voglia di tornare a casa, era troppo presto per andare a dormire, o per lasciarsi. Si sono lanciati giù per la collina, sono rimasti come sospesi nell’aria. Quando si sono accorti che c’erano un uomo e una tartaruga, proprio di là dal dosso, era troppo tardi.
L’uomo era Seersucker, dal nome del tessuto di cui era fatto il suo vestito. Un vagabondo, un flâneur, girava con la sua tartaruga Lazarus e preannunciava il futuro. Poi c’è stata una sparizione. Eleanor se ne è andata. Ha lasciato la sorella più piccola e la tartaruga Little Lazarus, grande quanto un piattino da caffè. C’è una relazione, tra la scomparsa di Eleanor, la permanenza di François al Goodbye Hotel, Lazarus e Little Lazarus. Ma appunto non è così chiara o lineare. E mentre François cerca di ricostruirla, noi seguiamo le sorti di Lazarus, il vero protagonista del romanzo. Ha un numero di anni imprecisato, non meno di 100, probabilmente molti di più. Ha accumulato esperienze diverse, ha camminato chilometri e chilometri, ha attraversato città, praterie, deserti. Si è sempre accompagnato a degli uomini, che si passavano un completo di “seersucker” e la missione di alleggerire il fardello della vita a quante più persone potevano. Lo hanno sempre trattato con affetto, tutti i suoi compagni di viaggio. Del resto Lazarus l’affetto lo attira, con la sua longevità, con quel suo modo di stare al mondo con semplicità, con quello sguardo che osserva e non giudica.
A Lazarus basta un po’ di cibo, un po’ d’acqua e un posto dove riposarsi ogni tanto. Per il resto va, passo dopo passo dopo passo, come un migrante che sa che nulla è definitivo e che il destino di chiunque su questa terra è quello di andare: in cerca di nuove esperienze, o perché il cibo è finito, o perché la gente non è ospitale, o perché tutto cambia, in continuazione.
Bible intesse le storie dei proprietari/compagni di Lazarus con quelle di altri personaggi più o meno fugaci, e poi con la scomparsa di Eleanor e con l’incidente della voce narrante, François. Ci racconta ancora di un’America porosa, piena di slanci di energia e di cadute, di relazioni fragili e inconsistenti, di famiglie silenziose e indifferenti, di ragazzi alla deriva, di persone sperse in una società troppo individualista, troppo indifferente, troppo povera rispetto a quanto è ricca, troppo iniqua e troppo disperata. Sfilacciata, frammentata, che più che essere “great again” avrebbe bisogno di essere “loved again”. Per contrasto, Lazarus e poi Little Lazarus, che ne accoglie il destino quando Lazarus muore di vecchiaia, vivono per vivere, e sanno trasmettere pace e calore, sanno interrompere per un tempo breve ma intenso il circo insensato della vita. Bible racconta tutto questo con infinita tenerezza. Per i suoi personaggi innanzitutto, gli umani bizzarri e sbilenchi, e per le tartarughe. Per l’America anche, che nella sua mescolanza di tutto e di più ha anche, nonostante tutto, bontà d’animo e profondità di sentimenti. Un’America che lo scrittore di sicuro ama.