Per Boris Pahor

Alle prime luci dell’alba di lunedì 30 maggio è morto nella sua casa a Prosecco, sull’altopiano carsico, lo scrittore di lingua slovena Boris Pahor, all’età di 108 anni. Nato a Trieste nell’agosto del 1913, quando la città apparteneva ancora all’Impero austroungarico, dopo le scuole medie frequentò il seminario studiando teologia a Capodistria e Gorizia. Numerose furono le sue traversie durante la Seconda guerra mondiale, che culminarono con l’arresto da parte della Gestapo nel 1944 – all’epoca Pahor militava nelle forze partigiane slovene – e la deportazione in alcuni campi di concentramento, tra cui Bergen-Belsen. Nel 1947 si laureò a Padova in Letteratura serbocroata con una tesi sulla lirica di Edvard Kocbek.

Docente di sloveno sin dal 1953, esordì come scrittore nel ’48 con il collected di prose Il mio indirizzo triestino. Del 1955 è il romanzo La città nel golfo (tradotto da Marija Kacin per Bompiani nel 2014), ambientato in un’Italia occupata dai nazisti, ampia raffigurazione della Resistenza e “moderna epopea dell’uomo umiliato e offeso”. In quest’opera emergono prepotentemente due figure femminili, Vida e Majda, croce e delizia del protagonista Rudi: secondo Tatjana Rojc, “il potere salvifico viene affidato all’incontro con la figura femminile, immagine centrale della narrativa pahoriana”. Dello stesso anno è, peraltro, La villa sul lago (traduzione di Marija Kacin, Zandonai, 2012), la storia di un architetto sloveno che torna dopo la guerra in un paesino sulle rive del Garda. Qui sono ben evidenti il potere rigenerativo di agape e l’eventualità della rinascita: la fede di Pahor, spinoziano di ferro, è nel cristianesimo sociale e in quel personalismo comunitario teorizzato dal filosofo Emmanuel Mounier.

Nel 1967 esce Necropoli (traduzione di Ezio Martin, Fazi, 2008), un libro di memorie dedicato alla terribile esperienza nel campo di concentramento di Natzweiler-Struthof. Ecco le prime, folgoranti righe: “Domenica pomeriggio. Il nastro d’asfalto liscio e sinuoso che sale verso le alture fitte di boschi non è deserto come vorrei. Alcune automobili mi superano, altre stanno facendo ritorno a valle, verso Schirmek; così il traffico turistico trasforma questo momento in qualcosa di banale e non mi permette di mantenere il raccoglimento che cercavo. So bene che anch’io, con la mia macchina, faccio parte di questa processione motorizzata, eppure sono sicuro che, vista la mia passata intimità con questi luoghi, se sulla strada fossi solo, il fatto di viaggiare in automobile non scalfirebbe l’immagine onirica che dalla fine della guerra riposa intatta nell’ombra della mia coscienza”. Claudio Magris, nell’introduzione al volume, ha sottolineato che il “possente afflato umano coesiste con una nitida e fredda precisione, in una perfetta struttura narrativa che interseca il racconto del passato […] e il resoconto del presente”. Salvo grazie al mestiere di operatore sanitario, Pahor contrarrà la tubercolosi e sarà ricoverato a Villiers-sur-Marne: lì si innamorerà di un’infermiera.

Oscuramento (1975; traduzione di Martina Clerici, La nave di Teseo, 2022) e Una primavera difficile (1998; traduzione di Mirella Urdih Merkù, La nave di Teseo, 2016) completano una sorta di trilogia autobiografica divisa tra l’orrore dei lager e le violenze fasciste, dove l’alter-ego dell’autore, Radko Suban – prima seminarista in fuga e poi reduce di guerra –, si imbatte in Mija e Arlette (nome montaliano), due simboli delle resurrezioni umane, dell’Ewig-Weibliche e della palingenesi che attende chiunque sia stato braccato da un destino oscuro. Inquieta e sensuale, Arlette – come la Sylvie di Nerval – risveglia in Radko la vittoria di eros sulla morte, l’eternità del ricordo e la forza perpetuatrice della vita. “Solo un sopravvissuto può passare le sue giornate meditando immagini e pensieri d’amore”.

Con Cristina Battocletti, Pahor – candidato svariate volte al Premio Nobel per la letteratura – ha scritto la sua densa autobiografia, Figlio di nessuno (Rizzoli, 2012). Il 13 luglio 2020 Sergio Mattarella e il presidente sloveno Borut Pahor gli avevano conferito le onorificenze di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana e di Cavaliere dell’Ordine per Meriti Eccezionali.