Rosa Matteucci / Liturgia del ridicolo

Rosa Matteucci, CartagloriaAdelphi, pp. 153, euro 18,00 stampa, euro 9,99 epub

Come è possibile che non avessi mai letto un libro di Rosa Matteucci, mi chiedo ora che ho finito Cartagloria ridendo fino alle lacrime e promettendomi di recuperare tutta la sua opera. L’ultima volta che ho riso così è stato con i libri di Francesco Permunian, anche quelli incontrati per caso e subito amati per la scrittura sulfurea e incandescente. O quando, mi si perdoni, mi capita di imbattermi in certe scenette di Checco Zalone, sospese sul crinale neanche troppo sottile tra il triviale e il grottesco.
Cartagloria è un viaggio allucinato e feroce dentro un’autobiografia spirituale che si rifiuta di accettare l’ordine consolatorio del racconto lineare. L’autrice ci trascina in un mondo dove galline parlanti, carrelli della spesa e cani risorti convivono con i traumi religiosi dell’infanzia, dentro una lingua teatrale e irriverente, capace di trasformare ogni disastro in canto, ogni dolore in caricatura. Il romanzo inizia con una sorta di delirio dove la protagonista è una fante-cuciniera arruolata in un esercito assurdo, guidato da un padre-maresciallo megalomane, e da lì parte una guerra che non finirà mai: contro Dio, contro i genitori, contro sé stessa. La guerra dell’infanzia, della fede negata, della ricerca del sacro in un mondo che sa solo rispondere con silenzi o farsa.

La scrittura è un continuo rovesciamento: l’India è la terra dove si beve urina sperando in una grazia, Lourdes un bagno umiliante, la messa tridentina un rito formale e iniziatico — e tuttavia, finché dura, un approdo, un punto fermo in mezzo al caos. Il sacro e l’osceno si guardano negli occhi, si riconoscono. La Prima Comunione è un gesto fallito, Dio è un padre assente, un’ossessione senza risposta, e ogni prova si trasforma in una gag tragica che affonda nella carne. Eppure, è proprio lì che abita la verità: nelle reliquie pelose del trisavolo, nei vetri che si rompono da soli, nei fedeli molesti in pigiama che disturbano la liturgia, nei ministranti inquietanti che trasformano la Messa in uno spettacolo spettrale. Il testo è attraversato da una rabbia che non si placa: una rabbia verso Dio che non è bestemmia, ma urgenza, fame, preghiera distorta e urlata. La rabbia di chi ha cercato, invano, un volto che lo guardasse, una madre che le dicesse “Ti voglio bene” piuttosto che farle leggere la letteratura più alta e classica. Una madre che tocca l’apice del pragmatismo quando, con disarmante naturalezza, propone di sistemare la bara del marito in verticale – “come gli egizi usavano con i sarcofagi delle mummie” – così da evitare l’incomodo di riesumare qualche avo per liberare spazio nella tomba di famiglia!

L’infanzia, il corpo, la fede: tutto viene masticato e riscritto. Il linguaggio liturgico, che dovrebbe elevare, viene ribaltato in una partitura comica e feroce. La scrittura è densa, ritmica, colta, continuamente percorsa da riferimenti religiosi e culturali, eppure sempre pronta a inciampare, a sporcare il sublime con una scoreggia, un vomito, una caduta. C’è qualcosa di felliniano nei personaggi, qualcosa di biblico nelle posture: la nonna superstiziosa e mistica, il nonno assassino-suicida, l’esorcista spaventato dal sesso, le amiche Cagnetta e Lupenga: tutte apparizioni che sembrano uscite da un vangelo apocrifo illustrato da Bosch. Ma anche il corpo dell’autrice è in scena, costantemente esposto e deriso, ferito e goffo: i denti caduti, le ginocchia sbucciate, la febbre, le umiliazioni, gli inciampi, tutto diventa materia di un testo che non vuole guarire, ma restare vivo.

Non c’è nulla di sterile in questo continuo ritorno all’inadeguatezza, alla marginalità. Anzi, è lì che si costruisce il senso profondo del libro: una fede rovesciata che si incarna nel ridicolo, una liturgia che non pretende più di salvare, ma solo di raccontare ciò che resta quando tutto crolla. Ogni scena è una parabola storta, una preghiera senza autorizzazione. Il libro di Giobbe, che dovrebbe offrire consolazione, viene rifiutato: quella pazienza non è più possibile, quella accettazione del dolore è un insulto. L’unico modo per stare davanti a Dio, se Dio c’è, è ridere. Ridere con violenza, con intelligenza, con disperazione. Ma ridere.

Cartagloria è un salterio laico, frammentato, imbevuto di malinconia, furia e desiderio. L’autrice mette in scena una voce letteraria colta, affilata, capace di attraversare i registri senza perdere mai tensione, né compassione. La famiglia in totale decadenza economica – con il padre mitomane e la madre autoritaria – diventa il primo teatro di questa liturgia rovesciata; la scuola, un luogo di punizione; il corpo, l’unico altare possibile. Non c’è salvezza, ma c’è scrittura. Colpisce soprattutto la contraddizione interna alla lingua del romanzo: può affondare nel triviale senza perdere controllo, dissacrare senza annullare, mantenere – anche nel grottesco – uno sguardo partecipe verso ciò che è umano. È un libro che fa ridere, spesso in modo spiazzante, ma lascia sempre intravedere, dietro l’ironia, una nota di dolore.

Il momento più intenso arriva nel finale, con una fotografia: cinque uomini trasportano un Cristo ligneo durante la guerra in Ucraina. L’immagine sconvolge la protagonista, evocando la visione di Vasilij Grossman davanti alla Madonna Sistina, ai cui piedi stanno i celebri angioletti poi finiti sulle magliette di Fiorucci. Ancora una volta, l’autrice non resiste dal mettere in evidenza un dettaglio “sporco”, grottesco, che incrina l’aura sacra. Ma è proprio lì, in quell’attrito, che croce e libertà coincidono. Il Cristo fragile diventa simbolo del dolore umano e della speranza di risurrezione. È una rivelazione improvvisa, che restituisce senso a ciò che sembrava perduto. Da allora, la Vergine di plastica o di gesso – immobile nelle nicchie delle città di Genova, tra i resti e la miseria – diventa per la protagonista un conforto discreto. La saluta ogni giorno, in segreto, con una devozione che non ha bisogno di parole, e sente che non è più sola nel cammino.