Sebastiano Mondadori / Prigionieri delle parole

Sebastiano Mondadori, Di cosa siamo capaci, La nave di Teseo, pp. 400, euro 22,00 stampa, euro 11,99 epub

Che bel titolo, Di cosa siamo capaci. Evocativo di tutta la bellezza e di tutto l’orrore di cui siamo circondati. Il romanzo di Sebastiano Mondadori però, spiace molto dirlo, un po’ delude. O meglio, un po’ affatica. Racconta la storia di Adele e quella di Nina, madre e figlia. Adele è cresciuta negli anni della ribellione, quel sessantotto dell’immaginazione al potere, delle promesse di un mondo migliore, fatto di uguaglianza, solidarietà, comunanza, amore, scambio. Ha studiato a Milano, quando l’università era gratuita ed era un diritto, quando era aperta a tutti, un laboratorio di idee e di relazioni. Ha passato un’estate indimenticabile in Toscana, nella residenza di una giovane marchesa, anche lei – almeno nelle apparenze e nella generosità – rivoluzionaria: ha aperto le porte della sua tenuta a chiunque, ha imbandito tavole nell’aia, ha lasciato spazio a una sorta di comune, durata una sola estate come il canto delle cicale. Appena prima di quell’estate, Adele aveva creato un terzetto alla Jules et Jim, e poi ha sposato il suo Jules. In una lunga vita milanese, ha scritto, ha insegnato all’università, ha fatto politica, ha sedotto più o meno intellettualmente uomini e donne. Ha avuto due figli, Nina e Marco. Che sono cresciuti negli anni ’80, figli di genitori benestanti e progressisti, ma anche figli anche di una società disorientata, richiusa su se stessa, in cui i valori predominanti sono il denaro e la fama, in cui chi si oppone alla “prevalenza del cretino” rappresenta una minoranza sempre meno rilevante. Mentre Marco, una volta grande, si ritira dal mondo e vive una vita solitaria su un’isola quasi deserta, Nina come sua madre vive intensamente, sperimenta, sbaglia e riprova. Viaggia, sposa un attore di teatro francese, ha un figlio. E ciò nonostante vaga inquieta, irrisolta.

Questo bel ritratto di due epoche soffre, secondo me, di un’eccessiva ricercatezza di linguaggio. Lo sforzo di trovare, per quasi ogni frase, un neologismo o un gioco di parole o un effetto, si traduce in una fatica da parte del lettore. E influisce anche sui personaggi.

Adele, che sembra sempre alla ricerca di un effetto speciale nelle parole e che si annota ogni frase che coglie come originale e bella, finisce per essere prigioniera del suo stesso modo di parlare e scrivere. La sua verità, la sua umanità, ci sfuggono, perse in quell’ansia di diversità e di intelligenza alla lunga sterili. Nina ripercorre molto del tragitto della madre, anche quello delle parole; riesce a percepire l’eccesso e il vuoto e anche la copertura che quelle parole rappresentano, ma il suo legame con la madre le impedisce di andare oltre. Nina resta a metà del guado, ferma nell’incertezza. Ogni tanto prende delle decisioni improvvise, come degli scatti, ma fatica a trovare una sua direzione.

E gli uomini stanno sullo sfondo. Bebo, Rudi, Ruben. Sono accompagnatori e compagni, sono uomini interi e delicati, a cui viene lasciato però uno spazio limitato. Quello che resta solido, costante, è il matrimonio di Adele. Che era stato celebrato durante l’estate indimenticabile in Toscana, quasi per gioco, e che ha resistito nonostante tutto. Un matrimonio per cui non vengono spese tante parole, e forse questo è il segreto della sua durata. Quando le parole si sostituiscono alla realtà, quando smettono di essere il veicolo che porta fuori da noi quello che è dentro di noi, finiscono per diventare delle prigioni. Succede a Adele e succede un po’ a Nina. Peccato, perché con un linguaggio un po’ più semplice e leggero avremmo apprezzato maggiormente il ritratto di un tempo perduto e forse rimpianto che sta al cuore del romanzo.