Che bel titolo, Di cosa siamo capaci. Evocativo di tutta la bellezza e di tutto l’orrore di cui siamo circondati. Il romanzo di Sebastiano Mondadori però, spiace molto dirlo, un po’ delude. O meglio, un po’ affatica. Racconta la storia di Adele e quella di Nina, madre e figlia. Adele è cresciuta negli anni della ribellione, quel sessantotto dell’immaginazione al potere, delle promesse di un mondo migliore, fatto di uguaglianza, solidarietà, comunanza, amore, scambio. Ha studiato a Milano, quando l’università era gratuita ed era un diritto, quando era aperta a tutti, un laboratorio di idee e di relazioni. Ha passato un’estate indimenticabile in Toscana, nella residenza di una giovane marchesa, anche lei – almeno nelle apparenze e nella generosità – rivoluzionaria: ha aperto le porte della sua tenuta a chiunque, ha imbandito tavole nell’aia, ha lasciato spazio a una sorta di comune, durata una sola estate come il canto delle cicale. Appena prima di quell’estate, Adele aveva creato un terzetto alla Jules et Jim, e poi ha sposato il suo Jules. In una lunga vita milanese, ha scritto, ha insegnato all’università, ha fatto politica, ha sedotto più o meno intellettualmente uomini e donne. Ha avuto due figli, Nina e Marco. Che sono cresciuti negli anni ’80, figli di genitori benestanti e progressisti, ma anche figli anche di una società disorientata, richiusa su se stessa, in cui i valori predominanti sono il denaro e la fama, in cui chi si oppone alla “prevalenza del cretino” rappresenta una minoranza sempre meno rilevante. Mentre Marco, una volta grande, si ritira dal mondo e vive una vita solitaria su un’isola quasi deserta, Nina come sua madre vive intensamente, sperimenta, sbaglia e riprova. Viaggia, sposa un attore di teatro francese, ha un figlio. E ciò nonostante vaga inquieta, irrisolta.
Questo bel ritratto di due epoche soffre, secondo me, di un’eccessiva ricercatezza di linguaggio. Lo sforzo di trovare, per quasi ogni frase, un neologismo o un gioco di parole o un effetto, si traduce in una fatica da parte del lettore. E influisce anche sui personaggi.
Adele, che sembra sempre alla ricerca di un effetto speciale nelle parole e che si annota ogni frase che coglie come originale e bella, finisce per essere prigioniera del suo stesso modo di parlare e scrivere. La sua verità, la sua umanità, ci sfuggono, perse in quell’ansia di diversità e di intelligenza alla lunga sterili. Nina ripercorre molto del tragitto della madre, anche quello delle parole; riesce a percepire l’eccesso e il vuoto e anche la copertura che quelle parole rappresentano, ma il suo legame con la madre le impedisce di andare oltre. Nina resta a metà del guado, ferma nell’incertezza. Ogni tanto prende delle decisioni improvvise, come degli scatti, ma fatica a trovare una sua direzione.
E gli uomini stanno sullo sfondo. Bebo, Rudi, Ruben. Sono accompagnatori e compagni, sono uomini interi e delicati, a cui viene lasciato però uno spazio limitato. Quello che resta solido, costante, è il matrimonio di Adele. Che era stato celebrato durante l’estate indimenticabile in Toscana, quasi per gioco, e che ha resistito nonostante tutto. Un matrimonio per cui non vengono spese tante parole, e forse questo è il segreto della sua durata. Quando le parole si sostituiscono alla realtà, quando smettono di essere il veicolo che porta fuori da noi quello che è dentro di noi, finiscono per diventare delle prigioni. Succede a Adele e succede un po’ a Nina. Peccato, perché con un linguaggio un po’ più semplice e leggero avremmo apprezzato maggiormente il ritratto di un tempo perduto e forse rimpianto che sta al cuore del romanzo.