Slavoj Žižek / Valutazioni e svalutazioni

Slavoj Žižek, Trump e il fascismo liberale, Ponte alle Grazie, pp. 160, euro 15,00 stampa

Il libro è una raccolta, a cura di Laura Berna, di articoli pubblicati da Slavoj Žižek su piattaforma Substack per gli abbonati a pagamento e copre grosso modo i primi sei mesi della presidenza Trump. Si tratta di riflessioni a caldo, spesso incalzate dagli eventi, a Gaza e in Ucraina, rincorrendo un’attualità politica che fin qui è sembrata sfidare a sinistra le chiavi di lettura consuete e le certezze degli ultimi decenni. Con la rielezione di Trump sappiamo che la sua ascesa non rappresenta un semplice glitch, un mero incidente di sistema. “Un evento storico afferma la propria necessità attraverso la ripetizione” quota parafrasando Hegel, ed è una delle rare volte che lo fa in un testo avaro di speculazioni filosofiche quanto generoso di provocazioni politiche.

Cominciamo dal titolo e dall’epiteto apparentemente ossimorico di “fascismo liberale”. Trump è un fascista? Forse. O forse no. Ciò che però conta e che il libro chiarisce già dall’intestazione è che fascismo e liberismo non si contraddicono ma sono due facce della stessa medaglia, che oggi si fondono nella figura e nel programma del leader MAGA. Se il fascismo denota il populismo di uno Steve Bannon, il liberismo di Musk, Bezos e (forse soprattutto) di Peter Thiel, lo connota con il sogno di un mercato libero di perseguire il profitto senza limitazioni o scrupoli sociali. Se il primo raccoglie il risentimento che il fallimento del neoliberismo e dell’élite democratica ha seminato a piene mani, il secondo lo proietta in un futuro che oggi suona come musica per oligarchi e immobiliaristi. Detto altrimenti: “il populismo trumpiano rappresenta una combinazione unica di libertà sociali formali e dittatura politica degli esperti (un mondo governato da ‘monarchi’ corporativi sostenuti da tecnici)”. In termini psicoanalitici basici, vediamo i più poveri lottare per i più ricchi perché “la pseudo-lotta di classe trumpiana è il ritorno del rimosso della sinistra liberal incentrata sulle identità”.

Secondo il filosofo sloveno per l’ex showman di The Apprentice, come per Stalin, “la verità fattuale è secondaria” ma se nell’ impero dei segni sovietico “ignorare la verità dei fatti rientra in un’ermeneutica ben precisa” perché “il fatto stesso che un’affermazione non sia fattualmente vera trasmette un messaggio chiaro”, nel discorso di Trump, il linguaggio funziona in modo completamente diverso. Poco importa se le sue affermazioni si contraddicono da un giorno all’altro, senza nemmeno preoccuparsi di essere smentite, sotto questa coltre di clownerie carnascialesca infatti “c’è una linea generale molto chiara”. Quale? “Mentre gran parte della sinistra è ancora ossessionata dal neoliberismo, vede in Trump la sua ultima incarnazione e ne chiede il superamento, Trump lo ha fatto – ha brutalmente cancellato il neoliberismo globale” divenuto insostenibile dopo la crisi finanziaria del 2008. Per Zizek siamo alla terza fase del capitalismo del dopoguerra, dopo Bretton Woods e la fine del gold exchange standard avviata da Nixon negli anni ’70. Citando Yanis Varoufakis, dietro al caos dei dazi, usati come una clava, il piano è reindustrializzare il Paese per rilanciare le esportazioni di merci, senza tassare i profitti di Big Tech. In pratica svalutare adesso il dollaro perché resti nel medio termine la valuta universale. Benché azzardata non è detto che la sua scommessa fallisca necessariamente.

Nella storia americana – osserva Žižek – l’unica precedente rottura altrettanto radicale nel funzionamento della società statunitense risale paradossalmente a F. D. Roosevelt ma il parallelo tra il New Deal e il MAGA di Trump ovviamente finisce qui, dacché il secondo oggi punta, in larga misura, sulla disintegrazione dello Stato sociale. Per il resto non c’è nulla di veramente nuovo nella politica American First se non la “consapevolezza che il modello attuale di tarda prosperità capitalistica non può essere universalizzato”. Come ammetteva George Kennan già nell’era Truman: “Noi – gli Stati Uniti – possediamo il 50% della ricchezza mondiale ma solo il 6,3% della sua popolazione. In questa situazione, il nostro vero compito […] è mantenere questa posizione di disparità. Per farlo, dobbiamo liberarci da ogni sentimentalismo”.

Il disimpegno e il pragmatismo cinico di Trump, secondo il filosofo sloveno, offrono adesso agli europei, forse l’ultima opportunità di affrancarsi dagli Usa e dai loro ricatti, senza farsi fagocitare dai sogni neo-imperiali di Putin. Non per dare vita all’ennesima potenza regionale in chiave BRICS ma per proseguire il progetto illuminista di uguaglianza e di universalismo dialogando in primo luogo con le vittime e, forse, con la Cina.  “Dal populismo trumpiano, invece, dobbiamo raccogliere la volontà irriverente di cambiamento”.