In Fiori che si aprono di notte lo scrittore argentino Tomás Downey costruisce quattro racconti ambientati in un presente riconoscibile, ma già attraversato da eventi che non richiedono più spiegazione: una probabile devastazione ambientale di cui restano solo le tracce, l’arrivo di creature non identificate, una procedura medica che permette di riportare in vita i morti, piccoli esseri tascabili simili a versioni umane miniaturizzate. Sono anomalie che, in altri libri, chiederebbero un chiarimento; qui invece sono parte dell’orizzonte. Il mondo è già cambiato, e i personaggi si muovono al suo interno senza stupore. L’effetto è sottile: la realtà è slittata, ma non produce meraviglia, solo nuovi modi di abitare la fragilità.
I due racconti più potenti della raccolta sono il primo (che dà il titolo al libro) e il terzo, che ruotano attorno a forme di maternità difficili da decifrare. Nel primo, la protagonista attraversa la gravidanza e la nascita senza che questi eventi diventino consapevolezza o identità. La maternità non inaugura un nuovo sguardo sul mondo, né ridisegna le priorità: è un fatto corporeo che entra nella vita con la stessa opacità degli altri avvenimenti che la attraversano. Downey racconta tutto attraverso una soggettiva serrata, che non si allontana mai dalla percezione della protagonista. Qui la sua formazione da sceneggiatore si rivela decisiva: l’uso della camera interna, il ritmo delle scene e il modo in cui la minaccia entra nello spazio narrativo hanno una precisione visiva rara, più vicina al cinema che alla prosa tradizionale. Colpisce che nella scena finale – che non sveliamo – la protagonista senta il pianto della neonata senza fare nessuna riflessione su cosa dovrebbe o potrebbe fare per proteggerla e metterla in salvo.
Nel terzo racconto, “La pazienza”, la maternità prende un’altra traiettoria, altrettanto insondabile. Una donna decide di ricorrere a una procedura medica per ‘rianimare’ il figlio di otto anni morto in un incidente. Il testo non attribuisce a questa scelta un movente chiaro: non sembrano esserci ricordi, né nostalgia, né un desiderio esplicito di riparazione. La rianimazione sembra nascere da una pura mancanza neanche precisamente messa a fuoco più che da un progetto affettivo. Quando il figlio ritorna, la maternità non riesce a ritrovare una forma stabile e come ricorda il titolo la madre manca totalmente di pazienza e capacità di empatizzare. A questo movimento si intreccia una vita sessuale intensa, che non contraddice la maternità ma la affianca come meccanismo di sopravvivenza psichica: un luogo dove il corpo può esistere senza il peso del lutto e senza definizioni. Sarebbe facile giudicare moralisticamente questa figura, ma il racconto non lo permette. Downey non offre interpretazioni né attenuanti: lascia il lettore dentro l’opacità dei gesti, non dentro la loro spiegazione.
Gli altri due racconti, “CET” e “Omino”, operano invece su un terreno più riconoscibile. Il primo mette in scena una coppia omosessuale che affronta l’arrivo inatteso di una creatura misteriosa, ma la forza del racconto non sta nella stranezza del CET: sta nel modo in cui la creatura, pur essendo un elemento di rottura, si inserisce in dinamiche relazionali in crisi tutto sommato già viste. “Omino” esplora il legame tra una ragazza e la piccola creatura semiumana – forse un upgrade dei vecchi Tamagochi? – a cui è affezionatissima. Anche qui l’elemento fantastico è normalizzato: ciò che conta è la risposta della protagonista a una vulnerabilità che richiede protezione.
Ciò che accomuna i quattro racconti è l’attenzione per forme di relazione asimmetrica: chi ha potere e chi non ne ha, chi cura e chi è curato, chi decide e chi subisce. I corpi sono sempre esposti: quelli dei bambini, delle creature artificiali, dei personaggi adulti che oscillano tra il bisogno e la paura. Le differenze riguardano soprattutto il registro: realistico nel primo racconto, speculativo in “CET”, amministrativo e quasi clinico ne “La pazienza”, psicologico in “Omino”. Ma il principio narrativo resta comune: la sospensione del giudizio. Il lettore non è chiamato a decidere cosa sia giusto o sbagliato, né a valutare moralmente i protagonisti. Non c’è un piano etico esplicito, e questa assenza non impoverisce il testo: lo rende più penetrante. Il lettore rimane accanto ai personaggi senza essere costretto a interpretarli o a redimerli. Da qui nasce una forma particolare di coinvolgimento: non empatia diretta, non identificazione piena, ma una vicinanza silenziosa, quasi fisica. Una sorta di quotidianeità da cui il lettore di tanto in tanto si riscuote dicendosi “ehi ma qui c’è qualcosa di strano”.


