Fantascienza esistenzialista

Colin Wilson, I parassiti della mente, tr. Alfredo Pollini, Urania Collezione n. 177, Mondadori, pp. 243, euro 3,99 ebook

Per il lettore non più giovanissimo trovarsi fra le mani la riedizione di I parassiti della mente (The Mind Parasites, 1967), di Colin Wilson (1931-2013), sarà un rinfrancante tuffo nel passato, per due ottimi motivi: il “contesto” e il “testo” vero e proprio. Il “contesto”, a cui questa edizione rimanda, è quello del 1978, quando cioè Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco, curatori di collane per la casa editrice Fanucci (spesso sotto il fuoco incrociato degli zdanovisti del secondo millennio, a causa della lettura tradizionale dei testi pubblicati) diedero alle stampe il romanzo di Wilson, con una poderosa introduzione qui parzialmente riportata.

Erano comunque i bei tempi in cui la fantascienza nutriva l’idea che il “testo” fosse un valore da studiare e non un bene da consumare e in fretta, quindi la triplice editoriale (Nord, Fanucci, Libra) gareggiava, ognuna con le proprie modalità, nel corredare le opere di degne introduzioni e succose appendici critiche. Un costume oggidì disusato, poiché i libri sovente appaiono avulsi da ogni anche pur minima nota che non sia laudativa. (Il fatto che Urania accompagni i suoi testi da una pertinente nota critica di Giuseppe Lippi è un caso a parte).

D’altronde l’oggi è diverso, i critici sono visti come enti desueti se non sospetti, l’ultimo parvenu della fantascienza dalla scarna manciata di libri letti si arroga il diritto di trinciar giudizi (e spesso attaccare il critico), evento che in aggiunta all’idiosincrasia dei lettori, fa sorgere il sospetto che importi non già la comprensione (del valore) quanto il consumo (del bene). Non a caso la pubblicazione ad opera della Mimesis di tutte le introduzioni scritte dalla coppia De Turris-Fusco, Le meraviglie dell’impossibile (2016) non ha avuto riscontri ad opera degli zdanovisti del terzo millennio, che preferiscono indulgere alle chiacchiere in rete dell’ultimo analfabeta arrivato e del relativi stuolo di bifolchi osannanti.

Detto ciò, passiamo al “testo”. I parassiti della mente è una sorta di horror-fantascientifico molto particolare. Nella finzione letteraria le vicende sono narrate dall’archeologo Gilbert Austin, impegnato a disseppellire le rovine sotterranee di un complesso megalitico nelle viscere della terra, attività che lo tiene lontano dalle debite indagini che vorrebbe svolgere sulla fine dell’amico Karel Weissman, morto suicida. Austin e l’archeologo e amico Reich si ritrovano quindi a disseppellire un complesso sotterraneo, battezzato Kadath in onore di Lovecraft, in un crescendo allarmato di psicopatici che intervengono per bloccare gli scavi, fino a quando Austin non si ritrova a leggere il materiale lasciato dal defunto, e a comprendere la portata della sua ultima intuizione: il mondo quotidiano è infestato dai “parassiti”, creature immateriali che vivono su un diverso piano di realtà, e agiscono contro gli esseri umani.

Il “cancro della mente”, come lo ha battezzato Weissmann, si annida nell’inconscio umano, e impedisce l’evoluzione del genere, spingendo gli uomini al suicidio, alla guerra, alla morte. La spiegazione che Wilson offre del cambiamento umano, localizzato nel sorgere del Romanticismo e in un diverso tipo d’uomo, creativo sì, ma votato al suicidio e alla distruzione, oltreché rimandare alla sua fondamentale opera saggistica, L’estraneo (1956), un poderoso volume di analisi esistenzialista di alcune figure fondamentali del pensiero, confina con conclusioni analoghe a cui giunsero Karl Jaspers in Genio e follia (1922), Stefan Zweig ne La lotta col demone (1925), Alfred Alvarez ne Il Dio selvaggio (1973) e Linda Schierse Leonard in Testimone del fuoco (1989). Tanto per chiarire come il genere fantastico, nella sua più ampia accezione, sia una letteratura d’idee, incrociata fra poetiche antecedenti e susseguenti e non mero escapismo.

I parassiti della mente è la prima opera narrativa del genere fantastico scritta da Wilson, ad imitazione e in onore di Lovecraft, di cui riprende non solo atmosfere e immagini, ma anche il periodare. Wilson era (all’epoca) il tradizionale uomo di cultura ignaro di fantascienza, e il suo romanzo soffre di questa scarsa frequentazione. Figlio di Lovecraft, abbiamo detto, in stretto legame con altri tanatologi, parente prossimo di Meyrink e di Daumal per l’idea del romanzo iniziatico, e di Jung e di Gurdjeff per i problemi relativi alla “veglia” (non a caso in seguito scrisse le biografie dei due pensatori), debitore per l’impalcatura filosofica a Husserl, Heidegger, Whitehead (tutti ampiamente esplicitati), il testo prosegue in un catalogo di orrori psicologici piuttosto inquietanti per buona parte del suo scorrere, fra cui una splendida battaglia psichica e una discesa avernale fra le rovine del Kadath in cui Austin e i suoi uomini devono creare atmosfere cupe per convincere i giornalisti dell’esistenza dei “parassiti”, nonché un’epidemia suicida fra gli uomini di Austin e Reich.

Poi all’improvviso l’autore inizia (coscientemente?) a violare il suo stesso dettato di scrivere un testo alla Lovecraft, e scivola nella fantascienza vera e propria. Ma lo fa in maniera un poco maldestra, perché la guerra razziale fra gli africani e i tedeschi è appena accennata, e l’immagine della grande astronave nera con le vele solari argentee, che si libra in cielo per convincere i terrestri dell’esistenza degli alieni, spinta dalla potenza psichica degli adepti, dal punto di vista estetico è affascinante, da quello cognitivo lascia alquanto perplessi. E così il viaggio della nuova astronave Pallas, spinta dalla medesima forza, ritrovata vuota dopo che Austin e Reich e tutti i loro adepti sono scomparsi. Una volta chiuso il testo, però, il lettore non si sente affatto rinfrancato. E se è solo in casa inizia a guardarsi le spalle.

I neo critici più o meno da tastiera, gli improvvisati curatori d’assalto, gli editori (intesi sia nel senso di chi edita il testo che in quello di chi lo dà alle stampe) sofferenti di analfabetismo di ritorno, cioè tutti quelli che non hanno studiato all’università i meccanismi della retorica ma ne hanno appreso l’esistenza in rete, da tempo discettano su un misterioso barbarismo, il famigerato infodump, che sembra risvegliare terrori ancestrali, perfino più dell’altro barbarismo, l’ancor più famigerato spoiler. È l’inglese maccheronico dei forum, figlio della critica nel tempo in cui un librettino palesemente post-liceale come New Italian Epic dei Wu Ming veniva messo in rete, scaricato dai seguaci osannanti e infine pubblicato da Einaudi nel 2009 fra gli scappellamenti generali della critica, favorendo la proliferazione della progenie ctonia di cui sopra.

Il lettore sprovveduto, figlio della rete e delle sue categorie critiche (?), potrebbe rimanere così sconcertato alla scoperta di quanto infodump sia presente ne I parassiti della mente; possibile, potrebbe domandarsi, che questo Wilson abbia potuto scrivere ampie digressioni, in cui racconta ciò che invece dovrebbe esser (secondo i canoni odierni) mostrato? Possibile che addirittura scriva di filosofia, pagine e pagine, sebbene nella nota introduttiva affermi di averne tagliato un bel po’? Possibile che il testo risulti scritto da Austin, contenga il diario di Weissman, e addirittura una relazione finale? E che tutto questo infodump non sia stato editato?

Possibilissimo, perché questa è la letteratura. Quella vera, per intenderci, non la sinto-letteratura per amanti di Internet, opera di scrittori che se lavoravano nella letteratura di genere, si erano formati innanzitutto su quella classica. Infine. La lingua italiana, nel campo della retorica, oltre ad avere alle spalle una tradizione risalente a Cicerone, possiede anche forme proprie: il famigerato infodump, ad esempio, è la mutazione odierna di termini come perissologia, o magari macrologia o ridondanza. Quindi: perché non ricominciamo a parlare italiano? Farà meno cool, ma le patrie lettere ci guadagnerebbero in credibilità.

 

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