Alan Moore, Oscar Zarate / Accadde nel 1989

Alan Moore, Oscar Zarate, Un piccolo omicidio, tr. Leonardo Rizzi Rizzoli Lizard, pp. 144, 19.7x26.7 cm, euro 22 stampa

Dopo aver rivoluzionato l’universo superomistico con Watchmen (1987) e Batman: The Killing Joke (1988), l’ultima cosa che ci si poteva aspettare da Alan Moore era probabilmente un horror esistenziale come Un piccolo omicidio (1989), obliquamente calato nello memoria e nello spirito del suo tempo: i ruggenti anni ’80 e la fine della Guerra Fredda. Malgrado le numerose ristampe, si tratta infatti di un’opera relativamente poco conosciuta nel corpus dell’autore inglese, almeno rispetto a saghe come In Hell, La lega degli straordinari gentlemen, V per Vendetta

A riprova dell’anomalia di quest’opera, c’è anche il fatto che l’idea della storia non è sua ma del disegnatore Oscar Zarate, illustratore e fumettista argentino emigrato nel Regno Unito e ritrovatosi in mezzo alla new wave britannica di Neil Gaiman, Grant Morrison, Mark Millar, Garth Ennis, Dave Gibbons e appunto, Alan Moore, ritagliandosi per lo più un ruolo relativamente umile con biopic a fumetti di Lenin, Freud, Thomas Girtin, ecc. Da notare che Oscar Zárate vanta anche trascorsi nel mondo della pubblicità come il protagonista di Un piccolo omicidio. 

Qui Timothy, uno yuppi quarantenne, sul punto finalmente di svoltare, ha infatti appena ricevuto da una importante agenzia di New York l’incarico della sua vita per il lancio di un brand beverage tipo Pepsi Cola nella Russia di Gorbačëv che si sta timidamente aprendo alla cultura e al consumismo occidentali. Ma nel suo viaggio verso l’Europa, Timothy è perseguitato da un ragazzino, apparentemente inafferrabile, che sembra fare di tutto per ucciderlo mentre ripercorre a ritroso le città e i luoghi mentali che, anche simbolicamente, hanno segnato la sua esistenza, tra il thatcherismo rampante di Londra e il plumbeo laburismo di Sheffield, la sua small town

Nella prima parte Moore fa un vero capolavoro nel rappresentare una comunità individualistica che si nega come società per riconoscersi nell’idea di mobilità e di frammentazione sociale, attraverso le conversazioni e i dialoghi captati a mezz’aria nel gossip delle feste, nelle chiacchiere dell’ufficio, in business class o in metropolitana. Ma è solo tornando a Sheffield, tra le case popolari dell’età Macmillan, che Timothy scoprirà la persistenza di una certa  cultura working class che ritrova in primo luogo nei gesti e nelle abitudini dei genitori assieme alle reliquie imbarazzanti e fin troppo ben conservate della sua gioventù: dalla prima, e da sempre vetusta, automobile, dal colore improponibile e con l’adesivo di Rock against the racism ancora incollato sul parabrezza – che il padre con la coppola alla Andy Capp non usa, restando fedele alla bicicletta – alla ex moglie dei vent’anni, ora appesantita dal secondo matrimonio, a differenza del nostro yuppie che non si è mai sentito pronto per gli impegni genitoriali.

Proprio tra le rovine operaie di Sheffield Timothy affronterà  i falsi ricordi della sua infanzia e nel contempo la resa dei conti finale  con la sua nemesi bambina, sempre più pestifera e risentita, approdando alla fine, inaspettatamente, anche alla sospirata idea per la campagna pubblicitaria,  destinata a troneggiare trionfalmente sulla Piazza Rossa.

Oscar Zarate, che cita Hugo Pratt e Milton Caniff tra i suoi ispiratori giovanili, sembra qui aver metabolizzato anche la lezione cromatica della scuola italiana del tempo e in particolare del gruppo Valvoline. Un Moore forse mai così libero e sperimentale si intesta l’altro 50% di questo graphic novel – tra le altre cose, vincitore dell’Eisner Award (1994), oggi meritoriamente riedito da Mondadori con un’intervista agli autori di Jaime Rodriguez come postfazione. “Penso che Un piccolo omicidio sia uno dei fumetti migliori che abbia mai scritto, di certo uno dei più belli a vedersi”. Riletto oggi ci sta tutto.