Andrea Fumagalli / Oltre l’economia politica come scienza

Nel capitalismo contemporaneo che ne è della teoria del valore-lavoro? E ancora, della moneta e in ultimo, della tecnologia? Nodi teorici della “scienza” economica che costringono il lettore ad aprire gli occhi sul presente. Andrea Fumagalli / Valore, moneta, tecnologia (Derive Approdi)

se conosci il nemico e conosci te stesso, non devi temere il risultato di cento battaglie[1]

Che sia stato Sun Tzu a ispirare l’Autore di questo godibile pamphlet? Il nemico che vi è indicato è uno e uno soltanto: l’economia politica che si vuole scienza. E precisamente, nelle due versioni che ne hanno segnato la storia a partire da oggi al secondo dopoguerra, secondo l’ordine temporale in adversum scelto di proposito: quella “dell’Equilibrio economico generale (Eeg)” e quella dell’“«approccio eterodosso o storico»”[2]. La prima è l’approccio dominante. Lo è diventato negli ultimi cinquant’anni, chez nous dalla sconfitta operaia alla Fiat nell’80 ; la seconda si era fatta valere a partire dalla ripresa delle lotte operaie degli anni Sessanta. La fissazione di questa cronologia è importante perché ci ricorda quanto scriveva Marx sullo stesso tema domandandosi, anche lui, se l’economia politica, allora ai suoi albori, fosse da considerarsi scienza oppure no. È solo un sapere borghese, rispondeva, da prendere sul serio al pari di una scienza “soltanto finché la lotta delle classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati”[3]. Questo tema della lotta di classe che decide delle qualità euristiche dell’economia politica torna nell’ultimo capitolo delle Teorie sul plusvalore III. Marx lo intitola L’economia volgare per distinguerla da quella classica dei fisiocratici, di Smith e di Ricardo: “economisti politici” preoccupati “ad afferrare la connessione intima” [4] del nuovo modo di produzione capitalistico. Da qui il suo sapore di scienza. Che svanisce con la rivoluzione continentale del 1848, anno in cui la lotta fra le classi raggiunse a giugno il suo stadio più acuto. Le subentra – sempre Marx – “una religione del volgare”, tradotta “in un linguaggio dottrinario” di parte, “apologetico” [5]. E gli piace qualificare con questo aggettivo il nuovo approccio che non dobbiamo considerare una deriva di quello classico, piuttosto una risposta tutta politica pensata per fronteggiare una situazione affatto inedita. Come dire un pensiero nuovo che la parte capitalistica elabora per contrastare quello di un’opposizione che “esiste già in forma più o meno economica, utopistica, critica e rivoluzionaria”. Quanto all’approccio classico, di esso non c’è più traccia perché “con la sua analisi ha già dissolto e reso vacillanti i propri presupposti” [6] .

È uno scenario molto simile a quello che abbiamo vissuto nel ventennio Sessanta-Settanta, inaugurato dalla Produzione di merci a mezzo di merci del ricardiano Sraffa; qui l’economia politica che si vuole scienza – l’eterodossa nel linguaggio di Fumagalli – è stata quella di quanti cercarono allora di recuperare grazie a Sraffa la teoria economica classica, nella fattispecie Marx attraverso Ricardo, dopo che nel decennio precedente a decidere delle scelte di governo erano stati Einaudi e Del vecchio, campioni della vulgata neomarginalista. A dettare la svolta, la fine della ricostruzione postbellica e le vertenze sindacali dei chimici e dei metalmeccanici non più disposti ad accettare salari di mera sussistenza. Semplicemente era finita l’epoca del contenimento dei salari a un livello sufficientemente basso. Che la parola passasse agli economisti del campo avverso, di preferenza marxisti e keynesiani uniti nella lotta contro la vecchia scuola, non deve meravigliare. Mai in Italia il dibattito su ciò che determina il saggio di sfruttamento o il saggio di profitto fu più vivace e spregiudicato. A stimolarlo, certamente una situazione inedita e tutta da capire e però aperta a più di una soluzione, con qualcuno, per lo più keynesiano, che scopriva il cosiddetto neocapitalismo con le sue forme e tecniche di razionalizzazione indotta o spontanea e qualcun altro, inveterato marxista, che pensava che la trasformazione in corso fosse in verità una forma di evoluzione che facilitava la possibilità di una pianificazione socialista guidata dalla classe operaia. Visioni sistemiche che trascuravano bellamente i movimenti reali di soggetti reali. Ha poco senso interrogarsi oggi sul loro valore d’uso ieri, considerando che solo le circostanze del tempo potrebbero rispondere; quanto invece al loro valore di scambio, è sufficiente prendere in considerazione la gran mole di articoli pubblicati in riviste specializzate e la proliferazione di pamphlets e scritti occasionali. Che la tendenza fosse quella di presentare l’economia come una «scienza» è evidente. Questo vale soprattutto per gli economisti accademici dell’area del Partito comunista, bisognosi di dimostrare la scientificità della teoria del plusvalore senza la quale anche l’incalzare impetuoso della lotta operaia in fabbrica ai loro occhi non avrebbe avuto senso. Troppe le aporie in cui sarebbe incorso Marx! Una teoria della distribuzione come quella di Sraffa avrebbe dovuto servire all’uopo[7]. Se non se ne fece nulla, fu perché il rimedio cercato si rivelò presto peggiore del danno e infatti di quello “splendido” torneo non è rimasto traccia[8]. Perché “peggiore” ce lo ha spiegato recentemente Massimo Cacciari: il suo sistema, di Sraffa intende, “è aperto e wertfrei” e la sua analisi neutrale  e però utilizzabile “sia da parte dei “classici” che dei “neo-classici” [9]. Anche sul fatto che il clima degli studi economici nel nostro Paese cominciò da quel momento a cambiare e nelle Accademie s’impose “una economia senza politica”, Cacciari non ha dubbi[10]. Va da sé che “economia senza politica” vale qui «teoria dell’equilibrio economico generale».

Questa storia è assente nel lavoro di Fumagalli, concentrato per la gran parte a spiegare i fundamental delle due scuole di pensiero che in fasi alterne hanno dominato il pensiero economico e dettato l’agenda politica negli ultimi settant’anni. Parliamo del valore, della moneta e della tecnologia nelle due versioni individualistica e sociale. Un vis-à-vis che si ripete per tre capitoli – il 2°, il 3° e il 4° – sufficienti per capire che ci troviamo di volta in volta di fronte alle due facce di una stessa medaglia: l’economia politica come scienza borghese del capitalismo. Certo, delle parti a confronto, la prima, quella ispirata all’Equilibrio economico generale, sembrerebbe negare ogni carattere di scienza ai suoi discorsi, l’altra rivendicarla per sé.  La voce «valore», ad esempio. Dovrebbe essere la categoria fondante questa scienza, il principio da cui essa si svolge. Eppure nella formulazione Eeg del valore-utilità, essa appare circoscritta alla mera descrizione del dato per via della sua funzione di regolatore del prezzo delle merci. Lo stesso accade con la «moneta». Le teorie dell’Eeg la studiano neutralmente “a partire dal suo essere merce”, niente di più di “una variabile esogena all’attività di mercato” [11]. Idem, infine, per le condizioni tecnologiche supposte esogene e la tecnologia supposta neutrale.  Solo apologia? Se così fosse, sembrano suggerire le argomentazioni addotte da Fumagalli, le teorie dell’Eeg non sarebbero durate tanto a lungo e in modo così pervasivo da farci tremare ancora vene e polsi.

Fin qui si potrebbe pensare al testo come a una buona dispensa che il docente di economia ha approntato per i suoi studenti. Buona perché il messaggio che gli trasmette resta quello di una scienza economica comoda e rassicurante, triste alla Carlyle e in aggiunta noiosa per via delle tante formule matematiche che infarciscono le sue pagine.

Ma ecco l’ultimo capitolo, il quinto, a rimettere tutto in discussione. È il capitolo dedicato ai nodi teorici aperti che richiede al lettore una certa sensibilità storica costringendolo ad aprire gli occhi sul presente. Nel capitalismo contemporaneo che ne è, si chiede Fumagalli, della teoria del valore-lavoro? E ancora, della moneta e in ultimo, della tecnologia? Valore, moneta e tecnologia sono i tre oggetti costitutivi della scienza economica e insieme i suoi tabù e hanno sempre funzionato “come tutte le scatole di montaggio di strutture modulari e polivalenti”[12]. La risposta di Fumagalli è quella del sacrilego che irrompe nel tempio: finis sia della teoria del valore-utilità che della teoria del valore-lavoro; deistituzionalizzazione della moneta, sua smaterializzazione e sua riduzione a puro segno; superamento della separazione tra attività lavorativa e mezzo meccanico, ibridazione tra umano e macchinico fino all’appropriazione del capitale fisso da parte dei produttori.

Finis dell’economia politica come scienza, dunque. Il che non è poco! Che Fumagalli tragga questa convinzione dalle lotte nell’ultimo trentennio del nuovo proletariato cognitivo resta però solo un sospetto perché nel suo pamphlet di lotte non si parla mai. L’impressione è che anche questa volta il Fumagalli economista abbia voluto tenere fuori dalla porta il Fumagalli impegnato nel sociale. È così? In Italia una simile linea di condotta era appannaggio dei marxisti della cattedra à la Napoleoni, capace di ingaggiare splendidi tornei con altri campioni suoi pari su Sraffa e di mandare alle stampe, anche lui, pamphlets di circostanza su questo e quel tema, alla bisogna[13]. Un sospetto che vorrei infondato perché poi, leggendo Fumagalli negli anni, ho sempre continuato a pensare che sì, le motivazioni di tutta la sua ricerca sul reddito, la moneta e la tecnologia non potevano non muovere da lì, da quelle lotte[14]. È il motivo per cui mi piace pensarlo dentro la tradizione dei Marazzi & Company, quella della critica dell’economia politica che, proprio perché impregnata fino al midollo di lotta di classe, aveva saputo anticipare, con la crisi della legge del valore, la rottura del nesso dinamico capitale-lavoro, il denaro come moneta-comando e il capitale fisso come Politico[15].

[1] Sun Tzu, L’arte della guerra, Guida editori, Napoli 1988, p. 83.

[2] A. Fumagalli, Valore, moneta, tecnologia. Capitalismo e scienza economica,  DeriveApprodi, Roma 2021, p. 7.

[3] K. Marx, Poscritto alla seconda edizione del Libro I de Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 39.

[4] K. Marx, Teorie sul plusvalore III, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 489.

[5] Ivi p. 487.

[6] Ivi p. 536.

[7] P. Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci, Einaudi Editore, Torino 1960.

[8] A dimostrazione che non è del tutto vero ho qui tra le mani un piccolo libretto dalla copertina gialla a cura di Franco Botta, Il dibattito su Sraffa, De Donato Editore, Bari 1974.

[9]  M. Cacciari, “Frontiere” 1/2021.

[10] Ibidem.

[11] Valore, moneta, tecnologia, cit. p. 81 e p. 86.

[12] G. Lunghini, Sui modi di produzione della «scienza» economica in (a cura di G. Lunghini) Scelte politiche e teorie economiche in Italia 1945-1978, Einaudi editore, Torino 1981, p. 7.

[13] Vedi di C. Napoleoni, Valore, Gianni Iuculano Editore, Pavia 1994.

[14] Nell’ordine afuma@eco.unipv.it; Moneta e potere: controllo e disciplina sociale in La moneta nell’Impero, ombre corte, Verona 2002; Crisi economica globale e governance economico-sociale in (a cura di S. Mezzadra, A. Fumagalli) Crisi dell’economia globale, ombre corte, Verona 2009; (a cura di E. Braga e A. Fumagalli), Moneta del comune e mercati finanziari in La moneta del comune. La sfida dell’istituzione finanziaria del comune, alfabeta edizioni e Derive Approdi, Milano 2015; Tecnologia e finanza: la morsa del capitalismo bio-cognitivo in (a cura di G. Molinari, L. Narda, Frammenti sulle macchine, Derive Approdi, Roma 2020.

[15] Tutto questo e altro ancora è in  C. Marazzi, La crisi del doppio mulinello in Primo Maggio 9/10, Calusca Editrice, Milano 1978.