Barbara Kingsolver / Fervore e denuncia, l’arte del romanzo

Barbara Kingsolver, Demon Copperhead, tr. di Laura Prandino, Neri Pozza, pp. 656, euro 22,00 stampa, euro 9,99 epub

Quando ho finito questo romanzo, ero sul volo che da Los Angeles mi portava in Italia, e ho pensato che libro bello, che libro forte, che libro importante. Si permette di ripercorrere una per una le orme di David Copperfield (un mostro sacro per i britannici, ma anche per tutti gli scrittori di lingua inglese) per ricordarci ancora una volta che le ingiustizie del mondo vanno combattute con qualsiasi mezzo, e incessantemente. E prima che combattute vanno ovviamente denunciate. Compito per eccellenza della letteratura, della parola scritta, del racconto. Ma non solo. David Copperfield e poi Demon Copperhead ci ricordano che le ingiustizie peggiori vengono perpetrate nei confronti dei bambini, innocenti (in questo non unici) e soprattutto inermi e impossibilitati a difendersi.

Demon Copperhead, come ci racconta lui stesso, nasce con la camicia ma orfano di padre, e presto perde la madre, giovanissima e drogata. Nello squallore di case mobili e povertà sia materiale che culturale, nell’America desolata di miniere abbandonate, lavoretti precari e assegni di disoccupazione, nelle montagne sperdute della Virginia del Sud, Demon cresce passando da un affido all’altro, da un maltrattamento all’altro. La salvezza sembra arrivare nella forma di un allenatore di football rimasto vedovo, che lo prende in casa, ne coglie il potenziale atletico e comincia ad allenarlo. Ma poi un infortunio blocca Demon, e soprattutto la cura con l’Oxycontin, un oppiaceo spacciato per normale antidolorifico, lo avvia verso la droga, la dipendenza e il degrado. Come David Copperfield però anche Demon Copperhead ha una sua dirittura morale, un’etica, una forza e una resilienza che alla fine lo fanno rinascere.

E dunque c’è questa America, di cui tutti vagamente sappiamo, di cui in realtà molti scrittori e anche giornalisti hanno parlato, questa America che non è solo povera e squallida, ma è colpevolmente povera e squallida. O meglio è la dimostrazione che povertà e squallore non sono qualcosa di inevitabile, di connaturato alle società umane, ma sono scelte, decise e determinate da qualcuno e subite da altri. Per convincersene, bisogna andare a vedere con i propri occhi. Andare in quei posti che non sono sulle guide turistiche, o annoverati tra le bellezze da non perdere. Spesso sono posti bellissimi. Dove però le case sono mezze cadenti, le macchine mezze sfasciate, la spazzatura si accumula e le roulotte o case mobili sono l’unico tipo di abitazione che la gente si può permettere. Dove quando vai al supermercato vedi persone giovani e già malconce, perché non c’è assistenza sanitaria e semplicemente non ci si cura. Dove il cibo è spazzatura luccicante, riempita di sale e zucchero per diventare edibile, e già che ci siamo creare anche un po’ di assuefazione.

Quell’America è stata anche il terreno di coltura della dipendenza da Oxycontin, antidolorifico di derivazione oppiacea, con cui la Purdue (azienda farmaceutica privata e dunque senza obblighi di trasparenza finanziaria) si è arricchita a dismisura, mentre il numero dei poveri americani che diventavano drogati senza neppure saperlo aumentava altrettanto a dismisura. Molti di loro erano persone che avevano fatto lavori usuranti e soffrivano di dolori cronici. Le vittime perfette. Naturalmente in questa America ci sono anche persone bellissime e generose e davvero buone. Persone che riescono a salvare qualcuno, a mitigare l’orrore, a dare speranza, coraggio o solo conforto. Quelle persone senza le quali il mondo probabilmente non sarebbe sopravvissuto a se stesso. Persone che sanno trasformare l’indignazione in fatti efficaci e positivi. E Demon Copperhead, che attraversa questo inferno e ne esce non proprio intero ma vivo, deve sicuramente all’incontro con alcune anime belle la sua salvezza.

Insomma questo è un romanzo che ci sprona, che ci sferza. Esattamente come credo fece Dickens con David Copperfield circa duecento anni fa. Quando avevo letto le motivazioni per cui a Demon Copperhead era stato conferito il premio Pulitzer, ex-aequo con Trust di Herman Diaz: mi era sembrato un buon segno premiare dei romanzi che parlano di soldi, di ricchezza e povertà, di disuguaglianza, di come le nostre società sono responsabili di come va la vita tanto quanto lo sono i singoli individui. Finalmente, mi ero detta, i romanzi tornano a essere quello che devono essere, un modo per far conoscere, per far capire, per avvicinare al mondo, alla sua complessità e alle sue storture. Per far vedere anche quello che ci sforziamo di tenere nascosto.

Ma il romanzo di Barbara Kingsolver è anche pieno di fervore e passione, di maestria e di arte. È un romanzo che non si vuole lasciare andare fino all’ultima pagina. È un romanzo che indigna ma anche diverte. A chi ha letto David Copperfield regala l’esercizio di ritrovare i personaggi, le corrispondenze, le attualizzazioni ben riuscite e quelle meno felici. Ma per tutti, credo che i capelli rossi e la pelle leggermente scura di Demon, la sua simpatia un po’ sbruffona, le sue sciocchezze e le sue intuizioni, il suo cammino di crescita e riscatto, siano qualcosa che resta per sempre. Ed è una ricchezza al cui confronto qualsiasi ricchezza materiale impallidisce.