Un clamoroso insuccesso

Louis-Ferdinand Céline, Pantomima per un’altra volta. Normance, tr. Giuseppe Guglielmi, Einaudi, pp. 592, euro 26,00 stampa

L’editore Einaudi ristampa finalmente i due romanzi delle Féeries di Céline in un unico volume; in precedenza erano usciti a un anno di distanza, rispettivamente nel 1987 e nel 1988, ma in Francia è ormai invalsa la tradizione pubblicarli uniti. D’altronde l’autore li scrisse come un’opera unica, con il titolo di lavorazione Féeries pour une autre fois I e II¸ come se un romanzo fosse la continuazione dell’altro — un po’ come fece per Guignol’s Band, apparso a Parigi da Denoël in piena guerra, nel 1944, mentre la seconda parte, Le pont de Londres, pubblicata solo vent’anni dopo, portava il sottotitolo Guignol’s Band II.

Il traduttore Giuseppe Guglielmi traduce Féerie con “pantomima”, perché non esiste in italiano una parola che corrisponda esattamente: occorrerebbe usare un’improponibile perifrasi del tipo “fantasmagoria fiabesca”. La ferie è un incantesimo, con riferimento alla messa in scena — un’immagine che fa pensare ai trucchi da palcoscenico che Georges Méliès montava davanti alla cinepresa per i suoi film, con l’intenzione di prendere a martellate il senso del meraviglioso dei suoi spettatori. Giusta dunque la sfumatura di significato di sapore teatrale della traduzione pantomima.

Alla sua pubblicazione in Francia Féeries si rivela un insuccesso annunciato, e non poteva essere altrimenti, viste le premesse. Céline è rientrato in patria solo due anni prima, grazie a un’amnistia ottenuta dal suo avvocato Tixier-Vignancour: era fuggito dalla Francia poco dopo lo sbarco alleato in Normandia, per timore di quello che avrebbe potuto succedere con la fine dell’occupazione nazista. Riparato a Sigmaringen, Germania, insieme a altri francesi compromessi con il regime fascista di Vichy, riesce poi a raggiungere la Danimarca dove ha investito i proventi dei suoi diritti d’autore. Con la liberazione viene arrestato, imprigionato in Danimarca, condannato a morte per collaborazionismo dalla giustizia francese, infine graziato, con un procedimento legale piuttosto dubbio, grazie alle benemerenze ottenute sotto le armi durante la Prima guerra mondiale.

Nel 1951 Céline e la moglie Lucette Almansor si stabiliscono a Nizza, poi tornano nella capitale, ma non a Montmartre dove hanno vissuto gli anni della guerra (e dove lo scrittore non metterà mai più piede) bensì a Meudon, sulla strada per Versailles. Il suo editore Robert Denoël, che a proposito dell’illeggibile pamphlet antisemita Bagattelle per un massacro aveva parlato di «nobiltà dell’odio» che Céline dimostrava verso gli ebrei, era stato assassinato in circostanze poco chiare nel dicembre 1945, e Gallimard aveva acquisito la quasi totalità della proprietà. È con quest’ultimo quindi che Céline firma un contratto che prevede la ripubblicazione di Viaggio al termine della notte, Morte a credito e altre opere, più il manoscritto di Féerie, probabilmente ancora intitolato Maudits soupirs pour une autre fois.

Pantomima per un’altra volta, uscito nel 1952, è un clamoroso insuccesso, malgrado Gallimard abbia puntato su un rilancio dello scrittore con condizioni eccezionali: il 18% dei diritti d’autore. I lettori non possono perdonargli la collaborazione con l’autorità d’occupazione tedesca, il sostegno al nazismo e persino, come si scoprirà nel 2015 alla desecretazione degli archivi sulla Seconda guerra mondiale, la denuncia di colleghi medici ebrei o comunisti, e la qualifica di agente dell’SD, il Sicherheitsdienst di Reinhard Heydrich.  Lo stile è quello consueto di Céline: sincopato, spezzato, pieno di anacoluti; segue il filo del pensiero più che la logica. La punteggiatura è quasi interamente sostituita dai puntini di sospensione e dal punto esclamativo. Ma qui, al contrario di altre opere precedenti e successive (la bella Trilogia del Nord che chiude la carriera dello scrittore, con l’ultimo romanzo, Rigodon, consegnato all’editore meno di una settimana prima della morte), la trama sembra fondata sul nulla, è una macchina che gira a vuoto, si capisce che l’autore è interessato soprattutto a scrollarsi di dosso le accuse di filonazismo. Non c’è da stupirsi, dato che la stesura del romanzo risale alla detenzione nella prigione danese e racconta la permanenza di Céline e della moglie nell’appartamento di rue Girardon sulla Butte Montmartre, durante i mesi di guerra e occupazione. La narrazione, sgranata e spezzata, è costruita su invettive e alimentata da una rabbia incontenibile, quella dell’uomo che si ritiene tradito dagli amici, e decide di ribatte per iscritto al processo per collaborazionismo che subisce in Francia, nel timore che possa concludersi con l’estradizione. Il ritmo è sì quello di una féerie, ma tragica, delirante, febbricitante.

A diciotto mesi dalla pubblicazione risultano solo 6300 copie vendute: un totale insuccesso che preoccupa l’editore. Gallimard consiglia Céline di cambiare il titolo della seconda parte per evitare un collegamento tra i due romanzi: ecco così Normance, che porta come titolo il cognome di un altro personaggio, un vicino di casa di rue Girardon. La fine del primo romanzo e l’inizio del secondo sono ravvicinate, quasi a contatto: l’amico pittore Eugène Paul (nel romanzo si chiama Jules) corteggia Lili (Lucette), che non sembra dispiaciuta. Céline verrà poi a sapere, durante la prigionia, che alla liberazione di Parigi, Paul ha rinnegato la loro amicizia, e allora giù invettive anche su di lui.

I venti di guerra che si avvicinano a Parigi verso la fine di Pantomima diventano un lungo bombardamento descritto in stile pirotecnico, e molto efficace, all’inizio di Normance, romanzo di lunghezza decisamente superiore. Il libro esce da Gallimard nel 1954, due anni dopo la prima parte. Inizia con una rovinosa caduta di Céline nella tromba dell’ascensore in un palazzo, continua con la descrizione dell’attacco aereo anglo-americano sulla Butte (siamo nel giugno del 1944). Céline, terrorizzato, è chiuso in casa insieme a Lili e al gatto Bébert, che lo seguirà nella fuga in Germania, diventando uno dei protagonisti della Trilogia del Nord. La capacità del suo stile di restituire il ritmo del bombardamento è a tutti gli effetti impressionante: le esplosioni spezzano le frasi, il significato, le immagini si disintegrano in schegge di ricordo, in un delirio che pare attribuire a “Jules” la regia del violento attacco aereo, l’amico/nemico che da una postazione sul Moulin de la Galette guida i bombardieri con la precisa volontà di nuocere a lui, Céline.

Gli abitanti del palazzo scendono sottoterra, nella fossa dell’ascensore, temendo che l’edificio venga colpito; circondato dai coinquilini, Céline entra in un nuovo delirio paranoico. È convinto che i vicini di casa attribuiscano a lui la colpa della guerra, del bombardamento; guidati dal corpulento André Normance (“mastodonte idiota”), circondano lo scrittore, lo aggrediscono fisicamente con l’intento di ucciderlo. Il tempo del racconto si dilata, la scena del bombardamento ingoia il romanzo.

Sfuggito al linciaggio, Céline ritorna nell’appartamento da Lili. Il gatto Bébert, che credevano perduto nel trambusto, riappare. Verso la fine del romanzo, Céline si ricongiunge anche con l’amico Norbert, nome dietro il quale si cela l’attore Robert Le Vigan, che insieme a Céline, alla moglie e al gatto fuggirà a Sigmaringen (nella Trilogia del Nord, Céline lo chiama “La Vigue”): la scena è simile a un delirio, in mezzo alla distruzione Norbert attende l’arrivo del Papa, di Churchill e del presidente Roosevelt.

Malgrado siano passati ottant’anni dai fatti e quasi sessanta dalla morte, il dibattito su Céline non si è mai affievolito in Francia. È l’autore stesso, al suo ritorno dalla Danimarca, ad avviare il tentativo di trasformarsi da scrittore bastardo e collaborazionista in scrittore maledetto, supportato in questo dai suoi esegeti:

“Per reintegrarsi nella società francese, Céline non ha paura di un colpo di mano: lavora per invertire i ruoli, per trasformare i suoi accusatori in persecutori, per inventare l’odio come gelosia per il suo stile, per seppellire i fatti. Le geremiadi del vagabondo cencioso seducono l’immaginazione, sempre ingenua. L’immagine miserabile di Céline, che richiede compassione, è messa in scena da tutti i circoli celinisti.”
Pierre-André Taguieff, Intervista a CRIF – Conseil répresentativ des institutions juives de France

E l’operazione funziona, se è vero che, al di là dell’indubbio valore letterario dell’opera, è proprio la figura umana di Céline oggetto di revisione: il traditore diventa perseguitato, capro espiatorio, vittima eroica. La ricerca intorno alla sua figura comunque procede, aiutata anche dal fatto che Lucette Almansor è vissuta fino all’età di 107 anni, morendo nel novembre 2019 nella casa di Meudon.

Forse il giudizio più azzeccato sul dottor Destouches (è questo il vero nome di Céline) è quello lasciato da Paul Morand:

“È un povero cane guida che si è fatto schiacciare schiacciato, tutto solo, per salvare il suo padrone disabile: questa Francia che continua a tastare con il bastone il bordo del marciapiede.”
Paul Morand, Mon plaisir en littérature