Ho “scoperto” Pauline Oliveros nel 1981 grazie al suo primo disco per Lovely Music, l’etichetta discografica che per prima provò a presentare la musica d’avanguardia a un pubblico pop (“musica carina”). Ignoranza mia, la Oliveros figurava assieme a Steve Reich, Richard Maxfield, Morton Feldman, Robert Ashley e altri almeno dalla metà degli anni Sessanta tra le eminenze della nuova musica contemporanea americana. Incontrai il nome di David Toop più o meno nello stesso periodo, grazie a un’altra altra etichetta di culto, la Obscure di Brian Eno, per cui qualche anno prima aveva pubblicato un disco con Max Eastley, un artista visuale interessato alle sculture sonore, dal titolo altrettanto oscuro di New And Rediscovered Musical Instruments. Appartenente a una generazione successiva a quella di Oliveros, Toop sembrava incarnare lo spirito dei tempi nel contaminato milieu avanguardistico britannico: a casa sua sulla scena improvvisata inglese, con gente come Steve Beresford, Paul Burwell o Tristan Honsinger, non disdegnava di comparire come suggeritore-strumentista dei Flying Lizard di David Cunningham, al tempo forse la new wave band più edgy del Regno Unito.
Da allora, fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 2016, Oliveros ha sviluppato una filosofia di ascolto e di meditazione, il Deep Listening, basata sulla percezione consapevole della musica e del suono ambientale, dando vita a una vera e propria scuola e a una rete seminariale nel mondo. Toop nel frattempo ha intrecciato alla carriera di musicista quella di critico musicale, dalle colonne di “The Wire” e di altre riviste, con un’attenzione particolarmente partecipata e onnipresente per la scena elettronica ambient, dopo essere stato uno dei primi ad analizzare la cultura Rap e Hip Hop. Per una concomitanza editoriale, le loro strade tornano per un attimo a incrociarsi – almeno nella mia testa – con la pubblicazione di questi due libri per i tipi di ADD edizioni e di Timeo.
Deep Listening è fondamentalmente un manuale che illustra in breve la metodica degli insegnamenti dell’ascolto profondo. Oltre all’ascolto focalizzato vero e proprio, comprende ad esempio esercizi di vocalizzazione dove la concentrazione sul proprio respiro diventa la premessa per intensificare ed estendere il suono. “È probabile che questa meditazione – premette Oliveros – produrrà una risonanza dell’ambiente. Alcuni suoni potrebbero essere troppo brevi, e quindi impossibili da rafforzare. Alcuni spariranno non appena cominciamo a rafforzarli. In quel frangente basta aspettare, e restare in ascolto”. La composizione è parte integrante del metodo, sia sul piano immaginativo (“Se potessi comporre qualsiasi brano musicale, cosa compreresti? In che modo lo realizzeresti?”) che materiale.
L’idea del deep listening nasce alla fine degli anni Ottanta, dopo una sessione musicale tenuta all’interno di una grossa cisterna a Port Townsend, in condizioni tali che il suono raggiunge un riverbero di 45 secondi. Oliveros racconta l’episodio a Toop nel capitolo a lei dedicato di Oceano di suono, la bibbia dell’ambient music che il musicista inglese, oggi accademico emerito, scrive oltre un quarto di secolo fa e che ADD oggi ripubblica meritoriamente. Il libro si presenta come un tour magico e iniziatico che, a partire dalla scena techno degli anni Novanta, risale attraverso epoche e fonti disparate ma – secondo Toop – sottilmente interconnesse, che hanno portato la musica occidentale a “decentrare” l’ascolto e a riconsiderare l’ambiente e lo sfondo delle figurazioni ritmiche rispetto alla figura e alla narrazione delle altezze tonali. Strategie oblique che portano a incorporare a vario titolo suoni e rumori oggettuali nel processo compositivo (Russolo, Varese, Cage, Curran, ecc.) o a dilatare lo spazio-tempo dell’ascoltatore attraverso la ripetizione/variazione di componenti minimal (La Monte Young, Terry Riley, Steve Reich, Jon Hassel, ecc.). La mappa di Toop parte da un Debussy, folgorato dalla musica Gamelan indonesiana ascoltata all’Esposizione Universale di Parigi del 1889, per arrivare a Brian Eno, il primo a confezionare l’ambient come genere e teoria pret-à- penser a metà degli anni Settanta. Nel viaggio incontriamo di tutto e di più: il cosmismo di Sun Ra e la dance di Detroit, Lee “Scratch” Perry e i Tangerine Dream, Aphex Twins e Roland Kirk, Daniel Lanois e Stockhausen, Pran Nath e Jimi Hendrix.
Nel 1995 il crollo dei generi e delle gerarchie, non solo musicali, è una profezia che sembra autoavverata dall’affermazione dell’elettronica digitale. Il suo miglior testimonial è di nuovo Brian Eno, che si affaccia sorridente dalla copertina di “Wired” (ha appena composto la sigla di Windows 95 dopo quella del TG3 nostrano). Anche per questo Oceano di suono resta una lettura affascinante per capire e respirare la cultura anni Novanta, dei club e dei tecnosciamani ma anche dei primi guru della Silicon Valley come Kevin Kelly, Howard Rheingold o Jaron Lanier (oggi convertito al tecno pessimismo). Come osserva Valerio Mattioli nell’introduzione: “La realtà è che Oceano di suono è tuttora un documento cruciale per chiunque, pur non interessato alla musica, voglia comprendere le origini di quella Civiltà della Rete inizialmente sospinta dal lento arrancare di un modem a 56k”.