Di qua da Princeton

Alessandro Giammei, Una serie ininterrotta di gesti riusciti, Marsilio, pp. 164, euro 12,00 stampa, euro 7,99 ebook.

«Questo è, se lo è, il suo primo romanzo»: è così che Alessandro Giammei ci presenta, all’interno della sua nota biografica, Una serie ininterrotta di gesti riusciti. Un romanzo? Il sottotitolo del libro recita, piuttosto, Esercizi su «Il grande Gatsby» di F. Scott Fitzgerald, manifestando così l’adesione alla linea editoriale della collana Passaparola di Marsilio, dedicata alla riscrittura, fictional o non-fictional, di testi canonici nella storia della letteratura mondiale. Esercizi d’analisi, dunque? Esercizi di stile? Nell’appendice, che è anche una vera e propria proposta di canone («da vero secchione», annota puntualmente ), si può trovare un’altra definizione assai adeguata per il testo: «questo ibrido tra personal essay e autofinzione, questo fiacco puntare al romanzo-saggio».

Con una «serie ininterrotta di gesti riusciti» (compiaciuti, sì, ma anche consapevoli e misurati), Giammei fa tutto questo insieme, mantenendo vive e in tensione reciproca le varie spinte di segno opposto. Il libro, infatti, è certamente un romanzo, ma non è tanto «di formazione» quanto «sulla formazione», trattandosi della storia di un ricercatore italiano che si trasferisce negli Stati Uniti, prima come ricercatore post-dottorale a Princeton e poi come docente in pianta stabile al Bryn Mawr College. Nessun lambiccamento retorico sui «cervelli in fuga», però: «mi voglio per sempre straniero», scrive Giammei nelle prime pagine, riequilibrando così l’antiamericanismo di maniera degli anni universitari con la fascinazione (a tratti brillante, a tratti oscura) del sogno realizzato (e dunque integrabile nell’American Dream).

Il libro è certamente anche una serie di esercizi intellettuali, e insieme auto-finzionali, sul Grande Gatsby di Fitzgerald. Se i riferimenti a quest’opera, sia nei titoli sia nel contenuto dei singoli capitoli, sono iper-evidenti, il vero sottotesto sembra essere però un’altra opera di Fitzgerald, ossia Di qua dal Paradiso. Quest’ultimo, infatti, è ambientato proprio a Princeton, e Amory Blaine è presente nella scrittura di Giammei tanto quanto Gatz e compari, e forse anche di più, indicando ancora una volta come l’autore sappia mantenere viva la tensione tra le diverse polarità dell’immaginario.

Il libro, infine, è un ibrido tra personal essay e autofinzione, con una propensione verso la forma romanzesca che non è sempre accolta e sviluppata, ma che, proprio per questo, rimane sempre viva. In fondo, come scrive Giammei, «più che un gioco Princeton è un romanzo», ed è con questo specifico dato, al di là di tutte le complicazioni stilistiche, che la sua scrittura deve confrontarsi, misurando le proprie vicinanze e le proprie distanze.

Visto il risultato, c’è da sperare che l’autore – fitzgeraldiano fino al midollo, e al tempo stesso munito di una consapevolezza autoriale già solida – torni su queste pagine, come dichiara a un certo punto: non tanto per farne un saggio accademico (come afferma, con quel mix di pedanteria e arguzia che, come ormai s’è capito, è uno stilema imprescindibile, dal punto di vista letterario, e non un’ingenuità), ma per darci altre prove di siffatta qualità.

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