Emiliano Monge / La materia letteraria del caos

Emiliano Monge, Un attimo prima della fine, tr. di Elisa Tramontin, La Nuova Frontiera, pp. 448, euro 22,00 stampa, euro 13,99 epub

“Nessun inizio è semplice”, annuncia il personaggio della madre, la protagonista, in Un attimo prima della fine di Emiliano Monge, tradotto da Elisa Tramontin per La Nuova Frontiera: nessuna storia di vita può essere raccontata senza ricordare quelle attorno a essa e il modo in cui l’hanno sfiorata e plasmata, senza avere dinnanzi allo sguardo il resto del mondo e la sua corsa al progresso. Così questo testo a carica materna, come lo definisce il figlio intenzionato a dialogare con la donna che l’ha dato alla luce e metterne nero su bianco l’esistenza, diventa il ritratto di una famiglia tra le tante, segnata dallo spettro della pazzia.

Al punto di vista della madre e del figlio, infatti, si aggiungono quelli di sorelle e fratelli, genitori e nonni: nessuno ha nome, la loro identità è stabilita dal loro ruolo nella ricostruzione dei due narratori principali. Per tenere insieme questa vastità di voci, Monge opta per una diegesi dalla struttura nitida: l’uso della seconda persona singolare e del futuro semplice, una ricorsività dal ritmo ben preciso, per esempio lo stesso attacco per ogni capitolo. Ciascuno di questi ultimi include un anno di eventi, sia legati alla trama sia alla Storia, tra tecnologia, politica e società, sulla falsariga de Gli anni di Annie Ernaux, dal 1947 al 2016.

Quasi fosse un documentario, ogni versione rivela particolari nuovi oppure omissioni, aspetti cancellati dalla memoria, incongruenze. I fratelli e le sorelle della madre hanno interiorizzato in modi differenti la loro infanzia e giovinezza, alcuni si sono avvicinati e altri si sono allontanati; a legarli è il tentativo continuo di sopravvivere alla freddezza dei genitori e di combattere quel demone che sembra inseguire in ogni generazione i membri della famiglia, la perdita di sé. Ognuno di loro ha trovato una modalità tutta sua per superare i traumi, eppure hanno la stessa tendenza ad abbassare gli occhi di fronte al passato, quasi a non volerne vedere fino in fondo i contorni.

Per la madre, da sempre convinta di essere diversa dai suoi cari, affermare la propria identità ha significato prendere le distanze dai genitori e trovare la propria strada, e combattere il caos per proteggere i suoi bambini dalla pazzia, già ormai dentro il nonno, i fratelli e, in altre forme, il padre e il compagno. Nel corso del romanzo, la donna abbandona quella memoria ipermetrope notata dal figlio negli zii e nelle zie, decide di guardare dritto verso il dolore. E proprio quel figlio, affetto da una malattia autoimmune e consapevole dell’oscurità strisciante appartenente anche a lui, la incalza a parlare del caos, si sorprende di fronte alle parole scelte da lei, un inedito vocabolario emotivo da scoprire.

La madre, quindi, rimane il nucleo, il cuore pulsante da cui tutto comincia. Un nucleo capace però di suddividersi, fatto di tanti centri, impossibili da quantificare, quante sono infinite le possibilità di rinascere di un essere umano. Da ragazzina solitaria e trascurata, inizia un viaggio per liberarsi della prevaricazione maschile ed esprimere fino in fondo i suoi desideri, per dare ordine al caos. È un confronto onesto, non scevro di silenzi, quello con il figlio, entrambi trovano pace di fronte a una certezza conquistata a caro prezzo: “A volte credo che la pazzia sia come quei fulmini, che alcuni di noi abbiano dentro uno di quei fulmini, insomma. E che non li dobbiamo lasciar uscire quando non è ora, perché quello è impazzire, appiccare il fuoco al mondo. Ma, se riusciamo a controllarli, a tenerli dentro, possono anche aiutarci, illuminare altri spazi, altri luoghi, altri mondi che, altrimenti, rimarrebbero nella penombra”. Monge rivendica di rendere materia letteraria caos, diversità, follia e paura, servendosi del supporto di grandi autrici come Olga Tokarczuk, Alejandra Pizarnik e Naja Maria Aidt. Ci ricorda che la letteratura può ancora essere lo spazio in cui trovare la nostra verità, o perlomeno far pace con la sua assenza.