La scrittura letteraria non ha nulla a che fare con la competizione, la scrittura letteraria produce trasformazioni. Se è vero questo assunto, è vero anche che noi di “PULP Magazine”, divoratori e divoratrici di oltre quattrocento libri l’anno e maniacalmente interessati a tutto ciò che orbita intorno all’oggetto libro, abbiamo provato a cimentarci con una rapida disamina dei cinque libri finalisti del Premio Strega 2025, tra i quali questa stasera (in diretta tv) sarà proclamato il vincitore. Un’edizione condita, come sempre, dalle polemiche per quei libri rimasti fuori dalla prima dozzina di selezionati, come Giorni di vetro di Nicoletta Verna (Einaudi) o dalla famigerata cinquina, come La signora Meraviglia di Saba Anglana (Sellerio).
Giunto alla sua 79esima edizione, lo Strega fu istituito nel 1947 sotto la direzione di Maria Bellonci e tra i suoi libri premiati annovera alcuni testi a loro modo importanti nella vicenda della letteratura in italiano dal Secondo dopoguerra a oggi. Basti pensare a Tempo di uccidere di Ennio Flaiano (1947) a Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani (1956), a L’Isola di Arturo di Elsa Morante (1957), a Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1959), a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (1963), fino a La chiave a stella di Primo Levi (1979) e a Il nome della rosa di Umberto Eco (1981) o a i più recenti Come Dio comanda di Niccolò Ammaniti (2007), Resistere non serve a niente di Walter Siti (2013) o La scuola cattolica di Edoardo Albinati (2016).
Si tratta, insomma, di andare a sbirciare cosa produce oggi una certa narrativa – va detto che da alcuni anni il Premio si assegna anche alla poesia e alla saggistica – mainstream in Italia, largamente rappresentata da quattro romanzi: L’anniversario di Andrea Bajani (Feltrinelli), Chiudo la porta e urlo di Paolo Nori (Mondadori), Perduto è questo mare di Elisabetta Rasy (Rizzoli) e Quello che so di te di Nadia Terranova (Guanda), più uno pubblicato da una casa editrice indipendente: Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol (TerraRossa Edizioni). Non per cercare forme di rispecchiamento o di raffigurazione privilegiata della realtà, quanto piuttosto per provare a rendere uno sguardo d’insieme su uno dei tanti spaccati di un mondo editoriale che, come noi ben sappiamo, sa ormai muoversi con agilità e qualità anche in territori un tempo negletti e che oggi, invece, si prendono il giusto spazio, come la fantascienza, il fantastico o il weird.
Equilibri precari
Andrea Bajani, L’anniversario, Feltrinelli, pp. 128, euro 16,00 stampa, euro 10,99 ebook
Con L’anniversario Andrea Bajani si è aggiudicato il Premio Strega Giovani edizione 2025 ed è in testa alla classifica per ottenere anche il premio principale. È comprensibile che i giovani lettori abbiano amato e votato questo romanzo perché rappresenta un contesto familiare complesso e delicato in cui la violenza fisica da parte del padre nei confronti della madre e della rabbia che esplode feroce in atti e parole prendono il sopravvento. I giovani lettori, dunque, si sono trovati davanti ad una vicenda che interpella ciò che vivono ma senza giudicare.
Una donna semplice proveniente da una famiglia borghese che, accanto alla figura del marito, svanisce, si annulla, non ha voce in capitolo nelle questioni famigliari. Una confessione intima in cui molti – purtroppo troppi – ragazzi possono identificarsi, che racconta i sintomi del patriarcato. Una moglie che lavora è una minaccia al ruolo del padre che gestisce l’economia della famiglia, una moglie non può avere amicizie femminili perché il confronto è inevitabile e il telefono fisso in casa non è necessario, così come è dovere di una moglie tacere e accettare che il marito abbia svaghi extraconiugali.
“La violenza era il mezzo quando ogni altro mezzo si era rivelato fallimentare, per procacciarsi qualche manifestazione di affetto, anche se insincera” e quindi il padre si serve della paura come forma d’intimidazione per ottenere in risposta amore, affetto. Un comportamento molto comune nella società d’oggi che cresce maschi col senso di colpa se falliscono o si dimostrano sensibili ed emotivi. Sebbene dall’altro lato la percezione sia di una donna debole, in realtà dobbiamo analizzare la forza silenziosa di una persona che evita conflitti e quindi disinnesca il comportamento del padre sul nascere.
La penna di Bajani è diretta e pungente, non ha bisogno di mascherare o agghindare gli eventi e i fatti narrati, costituendo forse uno dei motivi per cui la storia colpisce dritta al cuore il lettore senza sbandate. La relazione tra genitori e figli è complicata, un equilibrio precario su cui lavorare con una sincera comunicazione e un confronto costante, osservando l’esistenza di alternative possibili, nella speranza che ci siano sempre più libri a trattare questi argomenti, spesso sottovalutati.
Come la scrittura, anche la lettura è una necessità
Paolo Nori, Chiudo la porta e urlo, Mondadori, pp. 204, euro 19,00 stampa, euro 9,99 ebook
di ANNA DA RE
Quando esce un nuovo libro di Paolo Nori, sembra come quando uscivano gli LP di una band molto amata e seguita. Appuntamenti attesissimi dai fan e guardati con un po’ di sospetto dai detrattori.
Perché Paolo Nori è un po’ divisivo. Ha quello stile suo, molto piacevole e scorrevole e a tratti divertente, ma anche un po’ compiaciuto. Parla di altri scrittori e lo fa molto bene, ma forse parla un po’ troppo di se stesso, nel mentre. E ha una passione assoluta per la letteratura russa e per la Russia, che fino a oggi sembrava molto esclusiva.
Invece con Chiudo la porta e urlo Paolo Nori racconta Raffaello Baldini, poeta romagnolo tradotto (anche dallo stesso Nori), perché le sue poesie sono scritte in un dialetto che, persino per Paolo Nori che è di Parma, è una lingua straniera. Raffaello Baldini scriveva in versi liberi, ignorando la metrica e seguendo un suo ritmo interno. Il primo libro lo ha pubblicato a sue spese. Non ha mai cercato la fama o la gloria, la poesia era per lui una necessità, un modo di stare al mondo, di resistere al mondo.
La poesia di Raffaello Baldini, strettamente ancorata alla realtà di Santarcangelo di Romagna, ha l’universalità dell’arte. Ci parla con delle parole che non conoscevamo o che non avevamo mai sentito in quell’ordine e in quel contesto, e sono parole che arrivano dritte e chiare a tutti. E dopo averle lette, ci dice giustamente Paolo Nori, ci guardiamo intorno e quello che ci circonda appare diverso, come se si fosse accesa una luce, o il nostro sguardo fosse diventato più acuto e limpido.
La poesia, la letteratura ci trasforma profondamente e anche se non vogliamo, questo è il messaggio che gli ultimi romanzi di Paolo Nori ci trasmettono: Sanguina ancora e Vi avverto che vivo per l’ultima volta, dedicati rispettivamente a Dostoevskij e Achmatova. Come gli scrittori si interrogano sul perché scrivono, credo che anche i lettori si interroghino sul perché leggono. E forse è proprio perché cercano uno sguardo più chiaro e pulito sul mondo, di cui più che mai di questi tempi abbiamo bisogno.
Nel regno dei padri sfuggenti
Elisabetta Rasy, Perduto è questo mare, Rizzoli, pp. 240, euro 18,00 stampa, euro 9,99 ebook
di TANIA TONIN
Perduto è questo mare è un memoir intimo e malinconico – la sinfonia che hanno le cose passate – dove Elisabetta Rasy (1947) apre la porta del suo “regno senza padri”: un abisso, dove si può solo sognare quel sole che si vede ma non si riesce a sentire. È mai possibile, si chiede l’autrice, andare avanti senza mai guardare negli occhi di chi ci ha messo al mondo, anche solo fugacemente ma senza maschere, per ricordarci da dove veniamo?
Elisabetta Rasy inizia tracciando i fili della sua memoria infantile, in una Napoli sonnolenta del Secondo dopoguerra: una città sospesa tra il Boom economico italiano che lì sembra non arrivare mai e un torpore che scende dritto fino al mare, quel blu avvolgente che profuma di illusioni perdute. Tra i sogni di gloria sfumati del padre e la fuga a Roma con la madre, solo il richiamo inarrestabile del mare sembra tenere ancorata una ragazza che desidera fuggire all’immobilità che sente vibrare nelle ossa, nelle fondamenta di una casa paterna che non sa più di casa.
Inizia allora una fuga che durerà decenni, che la farà entrare in quel regno dove i padri sono delle figure sfuggenti, in controluce – come Enea che scende nell’Ade inseguendo un’apparizione onirica del padre; oppure come Franz Kafka, che rivolge al padre austero una lettera, mai letta, sulla distanza insanabile tra di loro. Figure sfuggenti, eppure così concrete nella loro perenne assenza che Elisabetta, quando incontra Raffaele La Capria, celebre scrittore italiano, riconosce in quel “punto cavo in comune” la stessa sostanza – una mancanza che pesa come una pietra.
L’amicizia con Raffaele rappresenta l’altro grande filone di Perduto è questo mare: un’amicizia longeva, quotidiana, il cui nucleo profuma dello stesso mare impossibile da risanare. Si conoscono quando Raffaele ha sessantatré anni, la stessa età del padre di Elisabetta quando è morto. Sebbene il loro non sia mai stato un rapporto tra padre e figlia, quell’incontro darà più vigore a quella mutua e abissale mancanza, riaccendo la fiamma paterna perduta.
Futuri rattrappiti
Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, TerraRossa Edizioni, pp. 208, euro 16 stampa, euro 8,90 ebook
In un’intricata rete di relazioni familiari, ma straziate da una doppia perdita, si immerge anche questo Inventario di Michele Ruol (1986) che, in novantanove brevissimi capitoli che hanno per titolo i mille oggetti che riempiono un interno domestico e quattro vite quotidiane – un inventario, appunto –, dispiega la vicenda frammentaria di due lutti. Cosa resta tra quegli oggetti/macerie quando chi li abita sparisce? Restano voci, episodi, detti e non detti, presenze fantasmatiche: non perturbanti ma certamente dolorose, a tratti lancinanti.
La scrittura di Ruol non insiste su una narrazione patemica e tuttavia la sua prosa piana, l’incedere ben cadenzato di frasi brevi colpisce, affonda.
Il lutto riavvolge il nastro della vita familiare: una dolorosa macchina del tempo che si spinge fino alla nascita di Maggiore e Minore e, al contempo, la vita di chi è rimasto va avanti, costringendo Madre e Padre a fare continuamente i conti con le conseguenze dell’assenza. Talvolta il racconto va ancora più indietro, a prima della nascita dei figli: è tutto il tempo della vita ad essere (s)travolto a ritroso. L’improvvisa solitudine dei due genitori è un abisso incolmabile che squaderna la devastazione di una coppia che perde completamente di senso. Perché Ruol ha scritto un delicato romanzo sulla disintegrazione nel quale alla graduale (ri)scoperta del mondo sconosciuto dei figli fa da contraltare il mondo nascosto degli adulti: bugie e tradimenti per sopravvivere a nuove routine, perdite, fallimenti, ruoli di genere cristallizzati e allo sfaldamento di un mondo che avrebbe potuto essere e non è stato.
Nelle sue pagine implacabilmente analitiche, quasi anatomo-patologiche, Ruol sembra chiedersi e chiederci cosa sia, dinanzi all’inesorabilità della morte, quella costruzione sociale e dell’immaginario che chiamiamo “famiglia”. Di mezzo ci sono anche le nostre identità sociali e individuali. E con quella che sembra una citazione – o almeno un rimando involontario al commovente episodio Be Right Back (Torna da me) della serie Netflix Black Mirror (stagione 2, episodio 1) –, il romanzo lascia che uno dei protagonisti si illuda di poter riportare in vita i morti attraverso una tecnologia ormai quotidiana e pervasiva, perché da quella resurrezione passi anche la sua.
In viaggio nella memoria individuale e collettiva
Nadia Terranova, Quello che so di te, Guanda, pp. 272, euro 19 stampa, euro 11,99 ebook
I romanzi autobiografici rischiano sempre di essere autoreferenziali, ma non è il caso di questo testo. La protagonista di questo testo è la stessa scrittrice, diventata madre tardivamente, che non può non rievocare la storia dei suoi avi, e precisamente della bisnonna Venera, impazzita dopo aver perso la terza figlia al nono mese di gravidanza. Nadia non può permettersi di impazzire adesso che è madre e scende a Messina, la sua terra d’origine, per capire quanto di vero o immaginario ci sia nella storia della bisnonna e per dare un significato a tutti quei non detti, superstizioni e bugie che costellano quel poco che sa.
È un viaggio nella memoria collettiva e individuale, pieno di intimismo, alla ricerca di scoprire quale sia la mitologia o la realtà della sua famiglia. Con una scrittura potente ed evocativa, uno stile pulito ed essenziale, parole scelte con una cura maniacale che formano un’orchestra, Terranova ci fa riflettere su come la memoria, oltre a uno strumento per non perdere le tracce di un passato che non dovremmo ripetere, sia anche il modo migliore per andare alla ricerca di noi stessi e delle nostre radici, scoprendone i lati più nascosti.
E nel romanzo ci sono padri, madri, nonni e bisnonni che con le loro esperienze hanno plasmato e indirizzato anche le nostre vite, c’è una società che dai primi del Novecento è cambiata radicalmente, soprattutto dal punto di vista medico della psichiatria. Una prova difficile superata a pieni voti da un’autrice che si è messa a nudo di fronte ai lettori e che rappresenta un punto di forza della narrativa contemporanea italiana. Un libro che, credo, meriti davvero di essere nella cinquina dei finalisti dello Strega, che non è sempre scontato.
Un’Italia introversa?
L’orizzonte offerto da questa cinquina è decisamente stratificato e molteplice: si tratta di romanzi che complessivamente attraversano e costruiscono mondi articolati. Tuttavia, mentre quelli di Bajani, Rasy e Ruol insistono su genealogie e conflitti familiari dove le vicende individuali restano spesso confinate ai meri rapporti personali, quelli di Nori e Terranova provano a muoversi da una certa stasi di provincia, tessendo le trame complesse di andirivieni geografici e storici per abbracciare vicende più grandi.
Difficile non pensare ad altri premi internazionali, i cui libri premiati, in effetti, tendono ad uscire da contesti claustrofobici – individuali, familiari, provinciali – per guardare a dinamiche temporali e spaziali ben più vaste. È il caso di James di Percival Everett vincitore dello statunitense Pulitzer Prize for Fiction del 2025, che riattraversa storicamente e geograficamente gli Stati uniti a partire da una sorta di riscrittura di un classico nordamericano; per non parlare di Orbital di Samantha Harvey vincitore del britannico Booker Prize nel 2024 e che, con grande originalità e un pizzico di vertigine, ci regala la vicenda di sei astronauti che osservano la Terra dalla Stazione orbitante internazionale. O, ancora, si potrebbe guardare al vincitore del francese Prix Goncourt nel 2024, Urì dell’algerino Kamel Daoud che torna nei tempi e nei luoghi della Rivoluzione algerina (1954-1962) per restituire voce ai suoi tanti e alle sue tante protagoniste dimenticate o rimosse e lo fa nella lingua del colonizzatore di allora. E se poi volessimo uscire almeno per un attimo dal recinto eurocentrico, il vincitore dell’International Prize for Arabic Fiction del 2024, Una maschera colore del cielo dello scrittore palestinese Bassem Khandaqji (1983) ci porta al conflitto israelo-palestinese attraverso la vicenda di un archeologo e del rinvenimento casuale di una carta di identità: una vicenda che sonda geologicamente questa Storia così intricata e dolorosa.
Insomma, messa in un quadro più ampio, la bella cinquina del nostro Strega ci mostra forse un’Italia timida, quando non introversa: chiusa in se stessa, un Paese intimorito che avrebbe forse bisogno di esplorare i suoi confini e andare oltre, respirare un po’. In fondo, attraversata ai suoi bordi, forse mai come in questo momento la scrittura letteraria italiana è stata così vivace.