Florilegio dei defunti

Giulio Mozzi, Il culto dei morti nell’Italia contemporanea, Nino Aragno Editore, pp. 174, euro 15,00 stampa

Torna dopo 18 anni dalla prima edizione il libro che Giulio Mozzi aveva lanciato sopra i cieli d’Italia, e a livello dei suoli concretamente smottati, come una meteora di cui era difficile comprendere le intenzioni. Romanzo nero? Poema decadente? Risucchio di un’ironia anglofila, o la semplice osservazione di una tragedia consumata pro die?

Ora molte circostanze intorno all’opera sono mutate in modo radicale, in ogni dove del mondo sulla soglia del disastro: per questo sembra più facile leggere le pagine come fossero una sorta di operetta morale forse in grado di smuovere qualche tipo di coscienza. La nuova edizione riporta come introduzione un saggio di Giovanna Frene, pubblicato nella rivista L’ozio letterario e d’arte (2001), dove correttamente si osserva quanto Il culto… debba considerarsi mutante rispetto a poesia e prosa: oratoria, retorica, etica si raggruppano per Frene dentro un’opera capace di produrre la negazione della morte. La vita, dunque, rimette le carte in tavola, permette all’uomo di gestire un culto o «qualsiasi scappatoia che gli dia una qualche eternità». La sopravvivenza non manca di allestire le proprie strategie a ogni livello naturale, dallo strategico virus al sovradimensionato sapiens.

Intanto Mozzi chiama a raccolta l’essenza delle sue percezioni narrative, il meglio delle storie a cui ha abituato il lettore lungo il suo percorso narrativo, da Questo è il giardino in avanti. Sempre di anime si tratta, di vicende riunite esattamente come le si possono scrutare in paesi, città e campagne, determinate dalla nascita alla morte a seguire le leggi del creato e degli uomini. Di quest’ultimi vediamo le intolleranze, gli ammazzamenti, le refezioni, le tecniche balorde per restare in vita, le vediamo descritte a voce alta per tutto il libro, con qualche personaggio ormai scomparso e dimenticato, con alcuni invece che tornano dal regno delle ombre con le loro parole sommessamente dette.

Uno per tutti il poeta Antonio Porta, ancora dentro la sua lotta poetica, ben presente e grato, grati noi di ritrovarlo. Mozzi lo sa bene, attiva le discordanze, si attiene agli eventi più vari e li lancia addosso alla nostra umanità esacerbata. Manganelli in vita ne tesserebbe le lodi, d’altronde pure lui sta ora dalla parte di coloro che incorporei sanno propiziarsi il culto, anche di se stessi. Ma pare stia qui l’essenza del Culto dei morti, il fatto che siano questi a descrivere l’epica mai spenta di una specie creatrice da sempre di infrazioni nel mondo.

Il suo barocco incontra colui che legge, certo non gli rende propizia la «felicità terrena», però un pizzico di divertimento sembra in parecchi punti dischiudersi, come per indubbie pagine di Manganelli o di Cioran i cui chiaroscuri talvolta rasentano il comico. La frequentazione dei morti è storica, vi si percepiscono consunzioni dell’idea di un eventuale Dio e dei suoi eventuali sudditi da sempre sull’orlo del precipizio mentre, morendo, inondano i posteri di malefatte.

Il malessere viene trattato da Mozzi come cosa oscena, non prende le distanze, non ripiega sulle lacrime ma non smette di farci sentire il profumo residuo (non propriamente delicato) di resti per niente «amabili». Infine non sono molto lontane le reliquie disperse nei territori di Sarajevo da quelle di Moana Pozzi, entrambe messe nel florilegio del Culto.

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