Non esiste tradizione che non sia il frutto di viaggio, incontri, contaminazioni, violenza e appropriazione. E quando da questi processi nasce una nuova estetica, allora si verifica l’inizio di una nuova epoca. Con questi brevi assunti si potrebbe inquadrare questo saggio di Gennaro Ascione (1978) – scrittore e docente di Studi culturali, postcoloniali e decoloniali del Mediterraneo all’Università “L’Orientale” di Napoli –, un saggio che è un viaggio, una narrazione, uno spartito che, dentro quel quadro, raffigura un tesoro di storie, idee e personaggi della musica e di Napoli: dall’Ottocento di O’ sole mio (divenuta hit mondiale della napoletanità nell’andirivieni migratorio tra Napoli e gli Stati uniti) allo “slang urbano” del misterioso Liberato che sa amalgamare la tradizione della canzone napoletana più classica col rap, l’elettronica e il funk, passando dall’inesausta ricerca afrobeat dei Nu Genea (già Nu Guinea) costantemente in rotta lungo le coste del Mediterraneo orientale e, per cominciare, dall’inventiva ritmica di Renato Carosone il cui sorprendente apprendistato era avvenuto nell’Eritrea, Somalia ed Etiopia colonizzate dall’Italia.
Se nelle relazioni (post)coloniali prevale l’impossibilità di un ritorno a casa – metaforicamente intesa come radici e tradizioni – e dunque domina una malinconia del viaggio e della diaspora, allo stesso tempo Storia e teoria non possono più basarsi sui “nessi causa-effetto che tanto piacciono ai puristi dell’autenticità” poiché “le relazioni interetniche irridono la brama filologica”, scrive Ascione. L’autenticità è un mito che non aggiunge nulla alla qualità delle contaminazioni e delle ibridazioni: impossibile stabilire filiazioni dirette, si può solo continuare a riprodurre e tradurre.
In questa storia niente e nessuno rivendica autenticità, né la purezza delle (perdute) origini.
Tuttavia, Ascione non si accontenta della geografia dei suoni ma si chiede quali siano le condizioni di possibilità tecniche e tecnologiche che hanno permesso la nascita di nuovi suoni. La storia del capitalismo, dei consumi e delle pratiche sociali attraverso le quali i soggetti reinventano e moltiplicano quei consumi è, del resto, anche la storia delle sue innovazioni tecnologiche: dalla nascita del disco di vinile alla forma canzone, dall’introduzione del sistema hi-fi come elettrodomestico casalingo a quei giradischi prodotti dalla Technics che permettevano ai DJ di maltrattarli scratchando e dando così vita a rap, hip hop e breakdance.
E al crocevia tra viaggi musicali e invenzioni ci sono sempre i corpi che ballano sul “dancefloor” – letteralmente la pista da ballo – che, più che un luogo, è un divenire, una confluenza di mutazioni sociali, psichiche, corporee e storiche: è quel modo di adattarsi e modificare un mondo altrimenti tristemente afflitto. E dunque ciò che “fa ballare” è portatore di un profondo e significativo potere trasformativo: una sorta di processo di soggettivazione nel quale sistemi di potere, sviluppi della produzione capitalistica, pratiche di resistenza e forme dell’espressione artistica confliggono continuamente, generando nuovi scenari umani.
La scrittura di Ascione sa mixare i diversi registri del linguaggio e dei linguaggi, la teoria con il racconto – persino negli effetti psicofisici della trance da ballo e delle sostanze psicotrope –, l’intuizione storiografica con il gusto per l’aneddoto e il dettaglio che sempre colpisce, creando un andamento che sapientemente costruisce l’attesa e infine la soddisfa. È un libro che viaggia e suona – risuona! – delle musiche e delle lotte politico-sociali che evoca con fervore e partecipazione. A tratti sa dosare un felice lirismo con il linguaggio della filosofia e del conflitto quando descrive la Napoli a cavallo degli anni Settanta e Ottanta attraversata da deindustrializzazione, depredamento del suo “patrimonio immateriale”, disoccupazione strutturale e programmata e le lotte contro di essa, il dilagare dell’eroina (di Stato) e il riflusso dei movimenti politici che, per un breve tratto, si erano vicendevolmente influenzati con il Pino Daniele delle origini e con i Napoli Centrale di James Senese. Musicisti che, sempre alla ricerca di suoni e ritmi e in viaggio dall’Atlantico nero all’Africa e al Vicino oriente, provavano a dare voce e senso facendo muovere il culo a una città altrimenti condannata alla mera “testimonianza del disagio”.
Un’ultima, necessaria annotazione. Questo volume inaugura una collana di Tamu Edizioni intitolata Scritture meridiane, diretta da Carmine Conelli e si tratta di un esordio davvero promettente non soltanto per la qualità del testo ma per la maniacale e splendida cura del volume: dalle scelte grafiche, di font e cromatiche alle bandelle completamente stampate con foto e materiali d’archivio di cui si legge nel testo. “Scritture meridiane”, dunque, come un modo nuovo di stare nel e scrivere il mondo, da Sud.