Gian Marco Griffi / Un romanzo d’avventura

Gian Marco Griffi, Ferrovie del Messico, Laurana Editore, pp. 824, euro 22,00 stampa

L’editore milanese Laurana esordisce sul mercato nel 2010 con una collana intitolata Rimmel, alla quale se ne affiancano diverse altre nel corso di questi dodici anni; l’ultima nata è Fremen (riferimento esplicito al ciclo del pianeta Dune di Frank Herbert), curata da Giulio Mozzi, autore di punta della casa editrice stessa e editor di lunga esperienza, non solo con Sironi e Marsilio ma anche con Einaudi/Stile Libero. Al recente Salone del Libro di Torino, lo stand Laurana ha suscitato un interesse attivo.

Ferrovie del Messico è la quinta uscita della collana Fremen; l’autore, Gian Marco Griffi, ha al suo attivo un paio di pubblicazioni (una raccolta di racconti e un romanzo incline al fantastico) con case editrici minori, che puntano però sulla qualità della proposta editoriale. E se in Più segreti degli angeli sono i suicidi, il suo esordio del 2017, già sembra puntare alla lunga distanza (quasi 700 pagine), in questo più recente romanzo cavalca davvero a briglia sciolta e verso tutti i punti cardinali; una sfrenata corsa dagli esiti pirotecnici che dimostra tre cose:

– Per avere successo nel mondo della letteratura italiana non è necessario essere giovani alle prime armi, docenti universitari o influencer.

– Il libro di lunghezza decisamente superiore alla media ha un suo mercato anche da noi, anzi vediamo aumentare costantemente il numero di pagine dei volumi.

– Esiste una speranza anche per una via italiana al postmoderno, nella tradizione di Stefano D’Arrigo più che in quella di Italo Calvino, e quindi più vicina a Borges o Pynchon che a DeLillo o Perec e l’OuLiPo.

Ferrovie del Messico è un libro divertente e singolare, costruito così bene e scritto in maniera così originale che è difficile riuscire a comunicare il piacere che si prova a leggerlo. Il primus movens della trama è un episodio marginale della seconda guerra mondiale (marginale per tutti, tranne per chi lo vive): come L’arcobaleno della gravità infatti, l’ambientazione è nel mezzo del conflitto più devastante nella storia dell’umanità, ma in entrambi i romanzi non c’è neppure una scena di guerra.

La struttura è quella di una quest classica, frequentata con piacere dal postmoderno. Siamo a fine inverno 1944, a Asti, Repubblica sociale italiana. Un giovane milite della Guardia nazionale repubblicana ferroviaria, Francesco Magetti, riceve l’incarico di disegnare un’accurata mappa del sistema ferroviario messicano; questo compito apparentemente assurdo, da portare a termine nell’occhio del ciclone di una guerra civile che ha spinto in montagna moltissimi giovani dell’età di Magetti, è la conclusione di una catena gerarchica scaricabarile discesa dall’alto, da molto in alto, fino alla base della piramide militare, e dalla Germania a quello scampolo di Italia fascista tenuta in piedi solo dalla Wehrmacht.

A prima vista, la mappa delle ferrovie del Messico sembrerebbe il McGuffin della situazione, l’oggetto/espediente narrativo che motiva i personaggi e muove la trama; ma nel caso di Cesco Magetti, così come lo Schwarzgerät di Tyrone Slothrop, è anche qualcosa in più: un simbolo, una chiave che apre la porta sulla comprensione del Male che corrompe il mondo. L’anti-eroe Magetti deve condurre a temine la quest per ostacolare un’ulteriore diffusione del dolore, perché nascosta nel labirinto dei Ferrocarriles de México c’è la città maledetta di Santa Brígida de la Ciénaga, il mistero, forse l’abominio, al quale vuole arrivare il nazismo.

Cesco Magetti, antieroe? Certo, viene presentato come l’antitesi del coraggio: inchiodato al suo ruolo di milite repubblichino che non ha mai sparato un colpo contro il nemico eppure non segue gli amici in montagna, terrorizzato dai dentisti al punto che preferisce tenersi un ascesso nella guancia, impedito nelle cose d’amore fino a non riuscire a dichiararsi a Tilde, la bellissima bibliotecaria il cui comportamento caotico, irrazionale, emotivo aggiunge un nuovo elemento di mistero alla trama.

L’azione si muove tra Asti e il Messico, con qualche puntata in Germania; porta alla vita una galleria di personaggi che a loro volta si trascinano dietro storie in/credibili se considerate collettivamente, di fascino straordinario se prese singolarmente. Tra le scene indimenticabili di questo romanzo che sembra sconclusionato, ma in realtà è sottoposto al rigido controllo dell’autore, ci sono i momenti in cui cellule di racconto si dilatano in lunghi momenti di pura fiction: racconti nel romanzo, fiori di storie che si staccano come petali dalla Storia, scampoli di Messico e di Kafka, citazioni di Borges, intere biblioteche di apocrifi dai titoli meravigliosi che verrebbe la voglia di collezionare. La trama rallenta, il tempo del racconto entra in stallo, i personaggi secondari diventano protagonisti. Griffi riesce a evitare le molte trappole disseminate sul percorso del suo romanzo: Ferrovie del Messico è anti-retorico, rifugge il patetico, suscita empatia senza impiegare trucchi lacrimevoli, il dramma non scivola mai verso il melodramma, neppure quando il registro narrativo è impostato sulla farsa.

Ultimo tocco di genio: come molti autori affezionati alla propria opera e ai suoi personaggi, Griffi inserisce un dénouement, cioè quella breve coda che talvolta segue l’epilogo, per rivelare al lettore commosso e curioso cosa accade ai protagonisti dopo la fine della storia raccontata. Ecco, Ferrovie del Messico ha in effetti una pagina finale che sembra promettere un seguito: in realtà però va letta alla luce del vero dénouement, che compare molto prima. Il lettore attento infatti si accorgerà che il titolo dell’ultimo capitolo, “La sigaretta di Cesco”, si connette all’unico altro titolo gemello del romanzo, “La sigaretta di Tilde”, che è a pagina 281, e che vale assolutamente la pena di rileggere una volta arrivati alla parola Fine (che, in questo libro, è “Prossimamente”).