Il Mago di Riga è un breve quanto intenso, elegante e appassionato inno all’intelligenza, al fascino sovversivo e genuino di Michail Tal’, detto Miša, il più giovane campione del mondo di scacchi prima di Kasparov. Nel 1992 Tal’ ha cinquantacinque anni – un’indovina leggendogli la mano gli aveva predetto che sarebbe morto a cinquantaquattro – e, il 5 maggio, sta giocando a Barcellona contro il giovane Vladimir Akopian quella che sarà la sua ultima partita giocata con un tempo standard di torneo.
Giorgio Fontana riporta ogni mossa dello storico incontro, e dalla partita risale alla vita del grande campione lettone. Ma Fontana non scrive una biografia, sebbene molti dei fatti narrati siano rispondenti alla realtà: Il Mago di Riga è, a tutti gli effetti, un romanzo, capace di insinuarsi nella mente di Michail Tal’, di scandagliarne l’animo e offrire al lettore un ritratto in cui verità e finzione si uniscono regalando la suggestione di conoscere Miša intimamente, seppur nel breve corso di queste pagine appassionate. Se il gioco degli scacchi è stato spesso usato come metafora della vita, qui l’autore va oltre e ci conduce in un mondo in cui gli scacchi non sono come la vita, sono la vita stessa, deprivata delle noie che affliggono e appesantiscono la realtà. Gli scacchi sono l’essenza dell’esistenza, nella sua purezza.
In un romanzo dallo stile perfetto, teso e limpido quanto una corda di violino, dove ogni parola è precisa come una mossa calcolata al punto da risultare spontanea, Fontana regala una visuale inedita e irresistibile sulla magia, sulla crudeltà, sulla passione che anima un gioco capace di coinvolgere e sconvolgere intere esistenze, un gioco i cui campioni incutono timore, deferenza e rispetto, un gioco che nell’ex Unione Sovietica – dove Michail Tal’ ha vissuto gran parte della sua vita – è motivo di vanto, oggetto di propaganda e ritorsione politica.
In Prima di noi, Fontana aveva raccontato la storia di una famiglia italiana attraverso il Novecento, lasciando che i suoi personaggi emergessero da uno stile che riprendeva cadenze dialettali, modi di dire che sapevano comunicare modi di pensare. Lo scrittore scompariva per lasciare spazio ai suoi personaggi. Qui, cambiando completamente la narrazione, muta anche lo stile, che si fa più prezioso e ricercato, ma resta invariata la volontà dell’autore di non sovrapporsi al suo protagonista, che prende forma anche e soprattutto dalle parole accuratamente soppesate con cui vengono tratteggiati non solo i personaggi ma il particolare contesto storico in cui si muovono. Ecco allora dischiudersi da ogni pagina, da ogni frase, quella tensione tra la poesia degli scacchi e la prosaicità della vita, il nodo irrisolto che legando amore e sacrificio è capace di creare l’inaspettato, ovvero la mossa vincente.
Per Miša il sacrificio è qualcosa che parte dalla scacchiera – dove sacrifica pezzo dopo pezzo, confondendo l’avversario e giungendo all’ordine della vittoria dopo aver attraversato il caos della guerra – e poi la trascende: la malattia che fin da giovane segna il suo corpo appare allora come il prezzo da pagare per la sete di vita che lo fa ardere anche nei momenti più bui. Un prezzo che lui non vede l’ora di pagare, con l’irruenza e il fascino selvaggio e cristallino di un’intelligenza che non sopporta di restare ingabbiata nel reticolo dell’interesse o del buon senso, ma che innalzandosi al di sopra della bieca concretezza della realtà, con i suoi calcoli e i suoi bisogni, illumina un universo anarchico e puro in cui solo una cosa conta: giocare per il piacere di giocare, perché “niente può togliere al gioco il suo vero fine: giocare, e pertanto sovvertire l’ordine delle cose”.