Una giovane dottoressa, medico internista che lavora nel Pronto soccorso di una grande città, timbra l’uscita e supera l’atrio attraverso la porta a vetri. Pochi minuti dopo la mezzanotte. Un deserto illuminato dalle luci al neon. È fuori, nel freddo e nella nebbia. Fa freddo, lei tira la cerniera del cappotto e camminando rasente il muro vuole raggiungere velocemente la macchina. Le chiavi in mano scattano come fossero un coltello a serramanico, “tiepida sensazione di sicurezza”. Al centro del cono di luce di un lampione “lui” sta seduto sul cofano di una macchina, il viso in ombra rischiarato da una sigaretta che sfrigola, jeans e maglietta dei Rolling Stones da cui fuoriescono due enormi ali membranose. “Chi sei?” “Chi ti sembro?” Lei pensa: allucinazione. O troppi pasti saltati. Raggiunge la macchina e si chiude dentro.
È l’inizio del romanzo, è l’inizio del dialogo con quello che sembra la visione del male interno (o interiore, come si dice) ma che improvvisamente appare ben visibile, concreto e parlante, esterno al corpo della protagonista. Dottoressa come Giorgia Protti, in quel di Torino, autrice al suo esordio con questo romanzo che mette in scena prima di tutto la vera vita tra le pareti di un Pronto soccorso, là dove le esistenze di medici, infermieri e pazienti s’incrociano nel bel mezzo delle emergenze sanitarie e psichiche: al centro di drammi estremi e umanità rimbalzate tra sventure, salvezze e condanne, e comicità impreviste. Vicende quasi sempre insane e sinistre raccontate come rapporti sul campo da chi sa – e lo sa bene – cosa significhi tramortirsi in turni infiniti nel luogo di prima assistenza che spesso si trasforma in luogo infernale governato dal caos.
Lucifero, con il suo piano, irrompe nel quotidiano tormentato della dottoressa, verso cui ogni capitolo guarda con precisione quasi forsennata, più che pertinente considerato il luogo delle operazioni. Il trambusto che governa i locali del Pronto soccorso, le stanchezze e le intersecazioni umane sono terreno fertilissimo all’intervento del diavolo, figura che saggia continuamente i limiti umani della dottoressa, e l’emotività che spesso sconfina in un dialogo che di mostruoso ha ben poco: “Mi sembri un cazzone.” Risposta: “Mi hanno chiamato in tanti modi, ma tu sei la prima che mi dà del cazzone”. Nell’ematologico e corporale susseguirsi del tempo viene a galla quel che Lucifero, figura sempre più tragicamente “umana”, scopre le carte del suo volere ponendo di fronte perdizione eterna e salvezza personale. Protti ha parlato – in intervista – di cruda realtà della carne e di odori (chi ha frequentato gli ambienti sanitari, da operatore e da paziente, sa bene di che si tratta) in cui irrompe il sovrannaturale perché in fondo “la materia e lo spirito non sono poi così lontani”.
La lucidità con cui la scrittrice ha affrontato la storia brutale dei reparti di emergenza rasenta allo stesso modo momenti metafisici e realismo “chirurgico”: è proprio questo a sorprendere in un libro dove l’angoscioso trattamento dei disastri corporali avvicina il prodigio fuori sesto ma non per questo meno reale. Lucifero ha spesso il bon ton di certa oratoria venata qua e là di perfidia minacciosa. È verso la fine del romanzo che la storia guidata dalla presenza diabolica giunge in un territorio insondabile e irrompe la potenza fantastica del male.
Se i destini in questo romanzo sono sghembi, per come l’autrice agisce pur nella sua scrittura ordinata e documentarista, la domanda bruciante del lettore più attento e scaltrito è: cosa ci influenza di più, la vita dello scrittore o il suo romanzo? Il destino è in mano a chi pratica la letteratura o è quest’ultima a tenere strette le briglie del nostro mondo confuso? Probabile che solo il diavolo lo sappia, come ampiamente dimostra in La giusta distanza dal male. Al netto della sua (finta) affabilità lanciata come un dardo – tiepido sì ma non per questo meno mordente – alla dottoressa immersa nell’altrui e propria sofferenza.