H.P. Lovecraft / L’altro Lovecraft

H.P. Lovecraft, Potrebbe anche non esserci più un mondo, a cura di Ottavio Fatica, Adelphi, pp. 161, euro 14,00 stampa, euro 7,99 epub

Decisamente questo 2025 è l’anno dei miracoli editoriali. Il mondo degli appassionati di fantascienza non ha ancora finito di stupirsi e di commentare (come sempre brontolando e litigando) la consacrazione di Philip K. Dick nel Gotha intellettuale dei Meridiani Mondadori, che adesso anche l’iper-elitaria Adelphi strabilia i fan del weird accogliendo fra le pagine sofisticate della Piccola Biblioteca l’assai poco sofisticato H.P. Lovecraft (1890-1937), scrittore di horror cosmico, mai fuoriuscito in vita dalle paludi paraletterarie del pulp, in più razzista, antisemita, xenofobo (con un parziale riscatto negli ultimissimi anni della sua breve vita), e per questo iconizzato a torto o a ragione dai fantafascisti nostrani: insomma un brutto anatroccolo senza la minima speranza di trasformarsi in cigno.

Il miracolo, se di miracolo si tratta, lo compie Ottavio Fatica, traduttore già ben noto e più volte messo alla gogna dai già citati fantafascisti (il cui nome sarà opportuno tacere) per aver osato invadere un territorio ritenuto feudo inviolabile del clan evoliano-tradizionalista: quello attinente a un altro inconsapevole autore idealizzato e stravolto dalla destra radicale, il misero e travisato J.R.R. Tolkien e alla sua opera principale, il ponderoso e frainteso livre de chevet della nostra beneamata premier, Il Signore degli anelli. Aver svecchiato e corretto la traduzione originale di Vittoria Alliata di Villafranca, abbastanza aristocratica da piacere agli evoliani e ulteriormente epicizzata dagli interventi di paludati intellettuali come Quirino Principe e Elémire Zolla, tradizionalisti  presentabili a differenza del loro beniamino in sedia a rotelle, riportando il malinteso testo tolkieniano a dimensioni più terrene e plebee in combutta con loschi sovversivi come i Wu Ming, necessitava come minimo che sugli empi trasgressori invisi ai Campi Hobbit, venisse scagliato l’anatema. E così è stato. Che poi la traduzione di Fatica abbia ormai sostituito definitivamente quella precedente sarà forse la conferma della deprecabile vittoria delle oscure forze di Sauron? Ci sarebbe quasi da sospettarlo. Prima Tolkien, adesso anche Lovecraft.

Invece questa volta Fatica si dimostra abbastanza inoffensivo (forse l’anatema ha avuto i suoi effetti, a meno che il sabotaggio truccato da apparente rivalutazione non si manifesti su un piano molto più sottile) e a conti fatti equanime, se non per aver dato spazio non al Lovecraft mitizzato, il Visionario di Providence, il tessitore di incubi, ma a quello quotidiano e prosaico. Si svela così un goffo autodidatta infarcito di stolida erudizione che si permette di ergersi a guru “sparasentenze” per annoiare i suoi sfortunati corrispondenti con pagine e pagine di sproloqui in cui discetta, argomentando in termini prolissamente abborracciati e approssimativi, di filosofia, di politica o di sociologia – con frequenti e garbati riferimenti a negri, ebrei e mangiaspaghetti, e sempre esaltando la superiorità, asserita ma mai documentata come sarebbe giusto esigere da parte di un preteso propugnatore del metodo scientifico, della civiltà ariana anglosassone. Il saputello si permette perfino di pontificare ridicolmente di sessuologia – lui che, ultra represso e probabilmente impotente o cripto-omosessuale, aveva certo meno voce in capitolo di qualunque suo coetaneo, avendo avuto un’unica e travagliata, per molti versi esilarante, esperienza matrimoniale con una signora divorziata, Sonia H. Greene, di origine ebraica, attraente e intelligente, di qualche anno più vecchia di lui, che doveva essere stata davvero tollerante e molto innamorata di questo patetico, sgraziato e imbranato razzista (il suo complimento preferito era dirle che stare con lui la riscattava dall’essere ebrea: non stupisce che la figlia di Sonia, già adulta, avuta da un precedente matrimonio, non lo abbia mai neanche voluto incontrare…), per non averlo a buon diritto cacciato a calci in culo di casa dopo due giorni di convivenza.

Fatica dunque, sulfureamente, ignora del tutto l’unica reale benemerenza lovecraftiana, l’immaginazione fantastica e orrorifica che lo pone meritatamente nel novero degli autori di genere novecenteschi, e propone invece per la rivalutazione adelphiana di questo outsider (proprio The Outsider è il titolo di uno dei suoi primi e più scopertamente autobiografici racconti horror), una lunga lettera, forse la più lunga che HPL abbia mai scritto. Lovecraft rifuggiva dai contatti fisici – per gli evidenti complessi di inferiorità alla radice del suo contraddittorio suprematismo bianco – ma compensava l’isolamento con una fluviale rete di contatti epistolari: restano circa settecento lettere pubblicate postume – non integralmente – in cinque volumi. Già alcune scelte della sua corrispondenza erano state tradotte in italiano ma sempre collegate ad un qualche nucleo tematico portante: centrate per esempio sulla polemica materialista, atea e antireligiosa (me ne sono occupato qui), o sulla riflessione nel campo del fantastico e della letteratura (Lettere dall’Altrove, Epistolario 1915-1937, a cura di Giuseppe Lippi, Oscar Mondadori 1993), o erano gestite apoditticamente e strumentalmente dai suddetti fantafascisti includendo solo lettere che confermassero tesi prestabilite a priori: Lovecraft razzista e antisemita (ahimè, in larga misura innegabile…), esaltatore di Hitler e Mussolini (in realtà occasionalmente e con riserve…), tradizionalista e antimoderno (in parte, ma certo non alla maniera di Evola e affini… piuttosto stilisticamente un Modernista come Eliot, Auden o addirittura Beckett, se solo ne avesse avuto la consapevolezza letteraria…).

Viene invece scelta qui una sola lunga lettera di ben settanta pagine, la 381 dal terzo volume dell’epistolario, forse solo perché è probabilmente la più lunga in assoluto mai scritta da Lovecraft. Una prima comunicazione editoriale dell’Adelphi aveva già presentato il volumetto come Lettera 466, ma Fatica deve aver all’ultimo momento cambiato idea, come accenna nella postfazione, sostituendola con questa, cronologicamente precedente (è del 1929: sono piuttosto le lettere della metà degli anni ’30, a mio modestissimo parere – almeno giudicando dal poco che ho letto – le più interessanti, quando un Lovecraft più maturo cominciava finalmente a mettere in discussione le granitiche convinzioni reazionarie e intolleranti degli anni precedenti) e probabilmente ancora più lunga. Non sappiamo di cosa parlasse la lettera 466 e non possiamo quindi dire se Fatica abbia o meno commesso un errore a sostituirla, ma possiamo tranquillamente affermare che questa lettera 381 è di una noia mortale. Il povero destinatario, certo Harris, probabilmente l’avrà solo scorsa qua e là per pura cortesia dopo l’assaggio delle prime pagine, a meno che non fosse un masochista e uno sfaccendato con molto tempo da sprecare in fanfaluche. Lovecraft riesce nell’impresa di usare il numero massimo di parole per esprimere il numero minimo di idee: si rivela un poseur che ha letto qualche libro e si atteggia a gentleman bennato e di cultura ma non riesce a convincere nemmeno sé stesso delle sue idee arbitrarie e preconcette, suffragate dalla menzione affrettata del Tramonto dell’Occidente di Spengler e condite da qualche altra citazione dotta sparata più o meno a caso. Un autodidatta fallimentare.

In questa scelta forse Fatica ha confermato ancora il suo ruolo destabilizzante rispetto ad un’immagine preconfezionata: distruggere il mito Lovecraft – non l’autore di racconti, certo limitato ma tutt’altro che disprezzabile, ma l’icona idolatrata da migliaia di fan che vedono in un mediocre narratore il filosofo antimoderno, il conservatore integrale, il profeta dell’antiumanismo e del nihilismo cosmico, rivelandone, attraverso le sue stesse fragili parole, la naïveté e inconsistenza culturale. La scelta – sulfurea ho detto prima – di far entrare finalmente Lovecraft nel palazzo buono e non dalla porta di servizio ma con il biglietto da visita di un testo così vuoto, saccente e noioso.