Han Kang / Ghiacci e sabbie, tutto il bianco che c’è

Han Kang, Il libro bianco, tr. di Lia Iovenitti, cura ed. di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi, pp. 163, euro 19,00 stampa, euro 10,99 epub

Han Kang scriveva poesie fin da bambina, oggi ha una libreria a Seoul e ha vinto il Nobel nel 2024. I suoi libri – definirli “romanzi” potrebbe risultare riduttivo – si concentrano in quegli spazi dove le questioni più ardue – storiche, private – s’intrecciano al pragmatismo di una scrittura tutta tesa alla verità. Alla sostanza tracciata sulla pagina bianca e capace di ferire al cuore o di dare vita e consistenza alla bellezza. D’altronde il “libro”, inteso come categoria artistica, è di per sé bellissimo. Lo esplicita con sana sicurezza la scrittrice coreana in quasi tutte le sue interviste. L’incertezza e il rischio sono al servizio della conoscenza, e quanto sia vero nel caso di Han Kang lo dimostrano le sue opere che sempre valicano i confini tra poesia e struttura narrativa, ammesso che si possano distinguere come “confini” gli atti di dolore consegnati al mondo in quest’ultimo libro appena uscito: Il libro bianco.

Qui i piani sono diversi, ogni brano si mette a disposizione del lettore con immediata libertà, dando ampi mezzi di passaggio, in senso e nell’altro, a poesia e prosa: e cosa meglio del “bianco” può gravitare intorno all’animo umano? Han Kang l’ha sempre saputo, prima di tutto stende una lista di tutte le cose bianche che le sembra di conoscere e che hanno orbitato vicino alla sua orbita esistenziale. Lei aveva deciso che attraverso di esse avrebbe potuto cambiare, e nello stesso tempo proteggersi da ferite e ansie. Ogni cosa bianca ha la sua storia, e questa interagisce con i giorni della scrittrice che non vuole più sottrarsi agli accadimenti. Dalla Via Lattea alla terra lo spazio si contrae, là dove tutto quel bianco fa contrarre il suo cuore, quello di una sorella minore che ricorda la sorella morta poche ore dopo la nascita. E che ancora sfiora quel corpo cercando il tiepido in esso contenuto. E che il bianco della neve prendeva in sé.

Siamo nel nocciolo compatto di una vita che ha lungamente viaggiato fra i diversi significati assunti dalle parole fra una lingua e l’altra, fra quel che passa fra madre e figlia, fra separazioni e presenze – e preghiere. E sono miriadi le parole che il bianco assume per stare al mondo, più o meno vicino o lontano da noi umani che – disgraziati – frantumiamo come peggiore controparte. Ecco perché una donna come Han Kang è necessaria al mondo e alle nostre povere sorti. Perché raccoglie attorno a sé il senso delle tragedie, dei dolori, e delle memorie che non vedono l’ora di sentire quella mano amica che le porta in un posto sicuro. Dove resistere al freddo dei ghiacci e al caldo delle sabbie.

Con l’io di Han Kang e il lei della sorella tutto il bianco avvolge il riconoscimento di come quest’ultimo sia preponderante nella praticabilità del mondo e della scrittura a cui ci si abbevera perché vocazione civile, oltre che umana, aumenti l’intensità luminosa dei giorni di vita. I posti non facili sono il discorso poetico di Han Kang che riflette mentre il racconto va avanti senza sottrarsi a nulla – gli atti umani sono bianchi per loro essenza e la poetessa/scrittrice li attraversa e ne è consistenza. Il libro bianco dice che nei territori della sua scrittura anche le magnolie in fiore sono amiche della neve che simile al foglio bianco accoglie le impronte dei passi e della calligrafia umani. In un certo senso, Han Kang non si è mai separata dalla sorella, né dalla voce della madre: «Ti prego, non morire».