Hertha Pauli, nata a Vienna nel 1906, scrittrice e giornalista, anche attrice, rappresenta – attraverso questo libro puntualissimo, grazie a Palingenia – una scoperta appassionante e inquietante per come ci proietta dentro la tragedia della Storia con l’intensità dei dettagli, quando i destini europei e mondiali vennero sbattuti in uno strappo micidiale da parte dei nazionalsocialisti che acquisirono il dominio dell’Austria. Lei e gli amici antinazisti si riunivano al Café Herrenhof, la realtà si stava trasformando rapidamente, la guerra di Hitler iniziava a svillaneggiare ovunque, SS e Gestapo sottoponevano a controlli più che capillari, identificando anche i “mezzi cristiani” e i “mezzi ebrei” come Hertha si definiva amaramente sentendo su di sé e sui compagni la scure delle leggi razziali. Nel marzo del 1938 dovette fuggire a Zurigo, da lì raggiungere Parigi e poi il Sud della Francia ancora libero e infine imbarcarsi, un paio d’anni dopo, a Lisbona alla volta di New York. Un periodo che Pauli racconta in un libro pubblicato trent’anni dopo, definendolo “libro di esperienza vissute”. Una testimonianza “tenacemente consacrata alla vita e all’umanità”, così la definisce Karl-Markus Gauß nella partecipe postfazione dedicata a “lei che aveva visto tutto”. Trecento pagine dove l’Europa che cade a pezzi viene vissuta con la generosità di chi vuol resistere e al contempo tenere fede al proprio racconto che tutto vuol esporre, pensando al futuro, ma descrivendo le ostilità subite perfino nell’amata Francia – quel paese visto da sempre come roccaforte di libertà e cultura.
Pauli lega la sua vita ai collegamenti con gli amici e i personaggi che fanno, letteralmente, la storia di quegli anni – racconta con sincerità luoghi e avvenimenti, sapendolo fare tenendosi lontana dai fatti privati – perché sopravvivere non è autocommiserarsi in un’epoca in cui anche a grandi distanze le persone riescono a comunicare attraverso la posta. Sembra strano, soprattutto oggi, come guerra e situazioni logistiche drammatiche (e la censura) non abbatterono la circolazione di missive fatte di carta, francobolli e telegrammi. Macerie, attacchi polizieschi e militari non fermano lei e i suoi amici che hanno nomi come Joseph Roth, Odön von Horváth, Alma e Franz Werfel, Walter Mehring, e altri grandi émigrés di lingua tedesca. Alla corte del parigino Café Le Tournon questi profughi diventano l’essenza di ciò che è ben più importante di casi fortunati o miracoli, ma fautori di uno sguardo rivolto al futuro mondato da guerrafondai assassini. L’esilio non oscurò la lingua che sembrava perduta, anzi venne ritrovata giorno dopo giorno nel vivido delle lettere, nello scambio di scritture che testimoniarono lo strappo nei brutti giorni europei.
A Hertha non interessa il racconto della sua famiglia, né del fratello Wolfgang che ricevette il Nobel per la fisica nel 1945. Le peregrinazioni descritte in Lo strappo del tempo nel mio cuore sono oggi una chiamata alla generazione di adulti e ragazzi che vivono un buio illuminato solo da schermi a cui sarà difficile scampare se una guerra molto diversa prederà gli animi di coloro che si aggireranno in territori dove del diritto s’è fatto strame. Pauli voleva ricucire lo strappo del tempo, le tappe della sua esistenza ancora ci parlano spiegando come resistenza d’animo, amicizia, lavoro di scrittori e poeti, uniti nel sapersi muovere sul terreno pattugliato dai drappelli, poterono contrastare le degenerazioni umane nell’oscura insensatezza che pervadeva l’Europa nei primi decenni del Novecento.