Il pianeta malato di Guy Debord

Guy Debord, Ecologia e psicografia, a cura di Gianfranco Marelli, , tr. Vincenzo Papa e Gianfranco Marelli, eleuthera editrice, Milano 2021

Di seguito un estratto del capitolo 11 “Il pianeta malato”, scritto da Debord nel 1971, per gentile concessione dell’ editore Eleuthera.


L’«inquinamento» è oggi alla moda, esattamente come la rivoluzione: si impadronisce di tutta la vita della società ed è rappresentato illusoriamente nello spettacolo. È la chiacchiera stordente in una pletora di scritti e di discorsi erronei e mistificatori, e prende nei fatti tutti alla gola. Si espone ovunque in quanto ideologia e guadagna terreno come processo reale. Questi due movimenti antagonisti, lo stadio supremo della produzione mercantile e il progetto della sua negazione totale, ugualmente ricchi di contraddizioni in se stessi, crescono insieme. Sono le due facce attraverso le quali si manifesta uno stesso momento storico a lungo atteso e spesso previsto sotto figure parziali inadeguate: l’impossibilità della continuazione del funzionamento del capitalismo.

L’epoca che ha tutti i mezzi tecnici per alterare assolutamente le condizioni di vita su tutta la Terra è allo stesso tempo l’epoca che, attraverso lo stesso sviluppo tecnico e scientifico separato, dispone di tutti i mezzi di controllo e di previsione matematicamente indubitabili per misurare con esattezza e in anticipo dove porti – e verso quale data – la crescita automatica delle forze produttive alienate della società di classe: ovvero per misurare il degrado rapido delle condizioni stesse della sopravvivenza, nel senso più generale e più triviale del termine.

Mentre alcuni imbecilli passatisti dissertano ancora su, e contro, una critica estetica di tutto questo, e credono di mostrarsi lucidi e moderni facendo mostra di abbracciare il loro secolo, proclamando che l’autostrada o Sarcelles2 hanno la loro bellezza, che dovrebbe essere preferita alla scomodità dei «pittoreschi» vecchi quartieri, o facendo notare con tono serio che l’insieme della popolazione mangia meglio, a dispetto dei nostalgici della buona cucina, il problema del degrado della totalità dell’ambiente naturale e umano ha già completamente cessato di porsi sul piano della pretesa vecchia qualità, estetica o altro, per divenire radicalmente il problema stesso della possibilità materiale d’esistenza del mondo che persegue un tale movimento. L’impossibilità è in effetti già perfettamente dimostrata da tutta la conoscenza scientifica separata, che ormai discute soltanto della scadenza e dei palliativi che potrebbero, se applicati con decisione, ritardarla leggermente. Una simile scienza non può che accompagnare il mondo che l’ha prodotta e che la possiede verso la distruzione; ma è costretta a farlo a occhi aperti. Mostra così, a un livello caricaturale, l’inutilità della conoscenza senza utilizzo.

Si misura o si estrapola con una precisione eccellente l’aumento rapido dell’inquinamento chimico dell’atmosfera respirabile; dell’acqua dei fiumi, dei laghi e ora degli oceani; l’aumento irreversibile della radioattività accumulata con lo sviluppo pacifico dell’energia nucleare; gli effetti del rumore; dell’invasione dello spazio da parte di prodotti in materie plastiche che possono aspirare a un’eternità come discarica universale; della natalità folle; della adulterazione insensata degli alimenti; della lebbra urbanistica che si diffonde sempre di più al posto di ciò che furono la città e la campagna; così come delle malattie mentali – comprese le paure nevrotiche e le allucinazioni che non potranno fare a meno di moltiplicarsi rapidamente sul tema stesso dell’inquinamento, e la cui immagine allarmante appare ovunque – e del suicidio, i cui tassi di incremento si sovrappongono esattamente a quelli della costruzione di un simile ambiente (per non parlare degli effetti della guerra atomica o batteriologica, i cui mezzi sono già in campo come una spada di Damocle, ma restano evidentemente evitabili). 

In breve, se l’ampiezza e la realtà stessa dei «terrori dell’Anno Mille» sono ancora un argomento controverso fra gli storici, il terrore dell’Anno Duemila è tanto evidente quanto fondato; è già ora una certezza scientifica. Eppure ciò che accade non è niente di fondamentalmente nuovo: è solo la conclusione obbligata del vecchio processo. Una società sempre più malata, ma sempre più potente, ha ricreato dovunque concretamente il mondo come ambiente e scenario della sua malattia, come pianeta malato. Una società che non è ancora diventata omogenea e che non è determinata da se stessa, ma sempre di più da una parte che la sovrasta, che le è estrinseca, ha sviluppato un movimento di dominio sulla natura che a sua volta non si è dominato. Con il suo stesso movimento, il capitalismo ha portato infine la prova che non può sviluppare ulteriormente le forze produttive; e questo non quantitativamente, come molti avevano creduto di capire, ma qualitativamente.

Tuttavia, per il pensiero borghese solo il quantitativo è metodologicamente serio, misurabile, effettivo; e il qualitativo non è altro che l’incerta decorazione soggettiva o artistica del vero reale, valutato nel suo effettivo peso. Al contrario, per il pensiero dialettico, dunque per la storia e per il proletariato, il qualitativo è la dimensione più decisiva dello sviluppo reale. Ecco quindi ciò che il capitalismo e noi avremo alla fine dimostrato.

I padroni della società sono ora costretti a parlare dell’inquinamento, sia per combatterlo (visto che vivono, dopotutto, sul nostro stesso pianeta – e solo in questo senso si può ammettere che lo sviluppo del capitalismo abbia realizzato effettivamente una certa fusione delle classi), sia per dissimularlo: la semplice verità dei «fattori inquinanti» e dei rischi attuali, infatti, è sufficiente a costituire un immenso motivo di rivolta, un’esigenza materialista degli sfruttati, altrettanto vitale di quanto lo è stata la lotta dei proletari del xix secolo per la possibilità di mangiare. Dopo il fallimento di fondo di tutti i riformismi del passato – ognuno dei quali aspirava alla soluzione definitiva del problema delle classi – si delinea un nuovo riformismo, che obbedisce alle stesse necessità dei precedenti: oliare la macchina e aprire nuove occasioni di profitto alle imprese di punta. Il settore più moderno dell’industria si lancia su diversi palliativi dell’inquinamento come su di un nuovo sbocco, tanto più redditizio in quanto vi si può utilizzare e manipolare una buona parte del capitale monopolizzato dallo Stato. Ma se questo nuovo riformismo ha la garanzia anticipata del suo fallimento, esattamente per le stesse ragioni dei riformismi passati presenta rispetto ai precedenti una sostanziale differenza: non ha più tempo davanti a sé.

Lo sviluppo della produzione si è sin qui interamente dato come compimento dell’economia politica: sviluppo della miseria che ha invaso e devastato l’ambiente stesso della vita. La società in cui i produttori vengono uccisi sul lavoro, e non possono che contemplarne il risultato, offre loro con chiarezza la possibilità di vedere e respirare l’esito generale del lavoro alienato in quanto risultato di morte. Nella società dell’economia sovrasviluppata, tutto è entrato nella sfera dei beni economici, anche l’acqua delle sorgenti e l’aria delle città, ovvero tutto è diventato il male economico, «negazione assoluta dell’uomo» che raggiunge ora la sua perfetta conclusione materiale. Il conflitto tra le forze produttive moderne e i rapporti di produzione, borghesi o burocratici, della società capitalista è entrato nella sua ultima fase. La produzione della non-vita ha continuato sempre più velocemente il suo processo lineare e cumulativo, arrivando a varcare un’ultima soglia nel suo progresso: adesso produce direttamente la morte.[..]

La sedicente «lotta contro l’inquinamento», per il suo lato statuale e regolamentare, andrà innanzitutto a creare nuove specializzazioni, nuovi servizi ministeriali, jobs [lavoretti], avanzamenti burocratici. E la sua efficacia sarà assolutamente proporzionata a simili mezzi. Non può diventare una volontà reale, se non trasformando il sistema produttivo attuale fin nelle sue radici. E può essere applicata con fermezza solo nell’istante in cui tutte le sue decisioni, prese democraticamente dai produttori in piena cognizione di causa, saranno in ogni momento controllate ed eseguite dai produttori stessi (ad esempio, le navi sverseranno immancabilmente il loro petrolio in mare finché non saranno sotto l’autorità di veri e propri soviet di marinai). Per decidere ed eseguire tutto questo, i produttori devono diventare adulti: occorre che si impadroniscano tutti del potere. [..]

In materia di ambiente «naturale» e costruito, di natalità, biologia, produzione, «follia», ecc. non ci sarà da scegliere tra la festa e il disastro ma, coscientemente e a ogni bivio, tra mille possibilità felici o disastrose, relativamente correggibili e, dall’altra parte, il nulla. Le scelte terribili del prossimo futuro lasciano questa unica alternativa: democrazia totale o burocrazia totale. Chi dubita della democrazia totale deve fare degli sforzi per provarla a se stesso, dandole l’occasione di mettersi alla prova in cammino: oppure non gli rimane che comprarsi la tomba a rate, poiché «l’autorità l’abbiamo vista all’opera, e le sue opere la condannano» (Joseph Déjacque3).

«La rivoluzione o la morte»: questo slogan non è più l’espressione lirica della coscienza in rivolta, ma è l’ultima parola del pensiero scientifico del nostro secolo. Si applica alle minacce per la specie come all’impossibilità per gli individui di aderire a qualcosa. In questa società in cui, com’è noto, il suicidio si espande, gli specialisti hanno dovuto riconoscere, con un certo fastidio, che era ripiombato quasi a zero in Francia nel maggio 1968. Quella primavera aveva ottenuto un bel cielo nitido, senza andare esattamente al suo assalto4, perché alcune auto erano bruciate e tutte le altre non avevano benzina per inquinare. Quando piove, quando ci sono finte nuvole a Parigi, non dimenticate mai che è colpa del governo. La produzione industriale alienata provoca la pioggia. La rivoluzione porta il bel tempo.