«Ho raccontato l’Italia» ha scritto nella pagina finale del suo ultimo romanzo Sebastiano Vassalli, scomparso nel 2015 dopo cinquant’anni di libri da «viaggiatore nel tempo» e di articoli giornalistici da «bastian contrario». Dopo l’infanzia di «figlio della guerra» abbandonato dai genitori, la sua carriera è iniziata con le proteste linguistiche della neoavanguardia nel Gruppo 63 e proseguita dedicandosi al romanzo di taglio storico. Con la sua investigazione letteraria delle radici e dei segni di un passato che illumini l’inquietudine del presente ha cercato di ricostruire il «carattere nazionale degli italiani». È approdato al Seicento con La chimera, poi al Settecento napoleonico con Marco e Mattio, quindi all’Ottocento e agli inizi del Novecento con La notte della cometa sul poeta Dino Campana, Il cigno alle origini della mafia e Cuore di pietra dentro l’epopea dell’unità d’Italia, per tornare indietro fino all’età di Virgilio con Un infinito numero, senza tralasciare l’attualità con interventi militanti su quotidiani come «Repubblica» e «Corriere della Sera». Raccontare l’Italia (Il Mulino) è una guida alla sua opera, con inediti, antologia della critica e la prima bibliografia completa, emerge l’idea di Vassalli che la letteratura sia «vita che rimane impigliata in una trama di parole».



