Scrivere del Novecento. Intervista a Alberto Pantaloni

L’ultimo libro dello storico Alberto Pantaloni dedicato alla figura di Eric Hobsbawn (1917-2012) e alla storia del proletariato industriale è l’occasione per riflettere anche su cosa è cambiato nella produzione e diffusione di saggi e libri che fino a qualche decennio fa erano presenti in ogni libreria critica.
Alberto Pantaloni si è prevalentemente occupato di storia dei movimenti sociali e politici nell’Italia degli anni Settanta, con saggi e libri su Lotta continua e il movimento del ’77, e di storia della storiografia marxista in Gran Bretagna.

Elisabetta Michielin. Ho letto un tuo post su facebook che mi ha molto colpito sia per quello che hai scritto che per la piattaforma che hai scelto per dirlo…

Alberto Pantaloni Ho scritto un piccolo post di sfogo (misurato) che però voleva essere anche uno spunto per riflessione ponderata. Il post riguardava i dati di vendita del mio libro su Eric Hobsbawm: a fronte di 500 copie stampate, ne sono state vendute 166. Nel rapporto fra copie stampate e copie vendute in realtà, le cose non sono andate finora malissimo, tuttavia negli ultimi anni quasi tutte le case editrici si cautelano impegnando gli autori a garantire l’acquisto di un numero minimo di copie, in pratica mettendoci soldi di tasca propria. Diciamo che, al di là del dato economico, la cosa disarma e deprime un po’.

E.M. Molti commenti al tuo post ruotavano attorno al problema della distribuzione delle case editrici o a come oggi si sceglie di scrivere e trasmettere il proprio sapere e a come si promuove un libro…

A.P. Sì, e su questo ovviamente il dibattito è aperto. Da una parte emerge la consapevolezza (probabilmente a seguito di esperienze dirette) che in generale la maggior parte delle case editrici ormai di fatto delega all’autore o all’autrice il grosso delle attività promozionali (ricerca di recensioni o di interviste, organizzazioni delle presentazioni, spesso addirittura il prendere accordi con librerie “di fiducia” per garantire la presenza del libro alle presentazioni, ecc.) e spesso a spese (di viaggio, di alloggio, ecc.) degli autori e delle autrici. D’altra parte, le politiche commerciali degli editori costituiscono a volte un ostacolo alla maggiore diffusione delle opere. Prendiamo ad esempio il meccanismo del “conto vendita”: la libreria riceve dalla casa editrice un certo numero di copie del libro; ne vende una parte e, dopo un periodo di tempo definito, le copie invendute verranno restituite alla casa editrice. Questo meccanismo permette soprattutto alle piccole librerie di prendere copie dei libri senza paura di dover pagare l’importo intero. Se si decide di non applicare più questo meccanismo, non è neanche pensabile di organizzare una presentazione, perché la libreria non può sobbarcarsi il rischio di avere delle copie invendute che non sa se mai le venderà. In diverse occasioni mi è stato risposto così e una volta ho dovuto (e voluto, perché si trattava di una libreria gestita da persone a me care e che quindi volevo sostenere) acquistare le copie invendute del mio libro che erano state acquistate direttamente dalla libreria. Insomma, per un verso o per un altro, a me sembra che il mondo dell’editoria, soprattutto la medio-grande, voglia fare “impresa” culturale evitando però di sobbarcarsi dei rischi tipici dell’impresa.

E.M. Un’altra cosa che viene messa spesso in rilievo è che “oggi tutti vogliono scrivere e nessuno legge”. Un assunto che suona un po’ moralista perché di per sé sembra una buona cosa che tutte le persone vogliano scrivere. Mi sembra una conquista…

A.P. Si dice spesso che «l’editoria è in crisi» e che «la gente non legge». Se guardiamo al passato sui tempi lunghi, questo è sicuramente vero, tuttavia, proprio il 2023 ha segnato una crescita, anche se lieve, del mercato dell’editoria sul 2019 (ultimo anno pre-pandemia) così come sulla percentuale di italiani e italiane dai 15 ai 74 anni che hanno letto almeno un libro in un anno (74%). Quindi, il fatto che «nessuno legge» va sempre correttamente dimensionato. Dopodiché, proprio per evitare derive moraliste o snobistiche su presunti «popoli bue», credo che sia necessario cominciare a prendere consapevolezza anche dei cambiamenti sui costumi di lettura. Credo che la «faglia digitale» dell’ultimo quarto di secolo da una parte imponga un adeguamento sui supporti (e-book) e dall’altro permetta anche operazioni culturali non dico a costo zero, ma che sicuramente possono rendere più a buon mercato i prodotti editoriali. Senza contare che, nella stragrande maggioranza dei casi si scrive per passione – civile o artistica – e non ci si illude di poterci campare. Hai ragione: pensare che tante persone abbiano voglia di scrivere è una buona cosa e, secondo me, un grande avanzamento democratico.

E.M. Il famigerato libro in questione è Eric Hobsbawm storico del lavoro. Il movimento operaio dalla Rivoluzione industriale alla fine del secolo breve (pp.152, Euro 12,00, Le Monnier). La domanda è quindi semplice come è possibile che un libro sull’autore che ha dato il nome al Novecento sia un libro che nessuno compra neanche quelli che usano l’espressione ‘Secolo breve’ ogni giorno. Forse il tutto risiede semplicemente nel fatto che è proprio così, il ‘Secolo breve’ è passato e non ha lasciato dietro sé niente?

A.P. Il libro è una specie di “biografia tematica” di Eric Hobsbawm, cioè passa in rassegna i suoi studi sul movimento operaio mettendoli in relazione con diversi aspetti: la militanza politica dello storico britannico nel Partito comunista; gli intrecci fra storia economica, storia dal basso, storia del pensiero politico e cultural studies; i grandi temi dei conflitti politici del Novecento, dall’imperialismo al nazionalismo, dalla violenza politica alla crisi del movimento operaio e dei regimi del «socialismo reale». Non so se sia un buon libro, so che sugli studi di Hobsbawm sulla working class novecentesca non si è scritto molto in Italia e, nel decimo anniversario della sua morte, mi sembrava un’operazione utile provare a dire qualcosa. Il ‘Secolo breve’ è passato e questo Hobsbawm lo scriveva già dal 1979, in un famoso articolo – “The Forward March of Labour Halted?” – che, sebbene tarato sulla Gran Bretagna e sull’avvento di Margareth Thatcher al potere, era estensibile a tutto il mondo euroatlantico. Eppure, Hobsbawm era convinto che il marxismo avesse ancora qualcosa da dire, perché immutato era il problema di fondo che aveva caratterizzato tutto il Novecento: il mercato capitalistico. Il marxismo può essere ancora attuale a patto si liberi di visioni ortodosse concependosi come un pensiero in continuo rinnovamento e ricerca. Quindi “marxismi” più che “marxismo”. Dall’altra deve interrogarsi realmente sulle nuove manifestazioni concrete delle contraddizioni prodotte dal capitalismo, accanto a quelle “vecchie”: dalla crisi ambientale, alla guerra; dai vasti movimenti migratori alla nuova composizione sociale della working class, fino alla condizione femminile e – aggiungo io – delle soggettività non binarie. Il lascito di Hobsbawm è quindi molto importante e l’attualità del suo pensiero impressionante. Il Novecento, quindi, non lascia niente dietro di sé, tutto sta a saperlo intrecciare con le domande, i processi e i movimenti sociali dell’oggi.

E.M. Ciò che ha dato sostanza al Novecento è naturalmente il soggetto che viene nominato nel sottotitolo del libro, il movimento operaio. Che ne è oggi? Ha ancora significato parlare di questa “entità” ad esempio nei movimenti intersezionali del femminismo e decoloniali negli accampamenti universitari?

A.P. Ecco che arriviamo alla questione, per l’appunto. Intanto cominciamo col dire che questa esorcizzazione della «classe operaia» è fenomeno peculiare italiano. Nel mondo anglosassone ancora oggi i confini di appartenenza sociale passano ancora per linee di classe e i concetti di «working class» e di «labour» sono ancora di normale utilizzo, anche nella comunicazione mainstream. Tuttavia, come dicevo (e come scriveva Hobsbawm), sarebbe da ottusi pensare ancora oggi a un “centralità operaia” così come si diede fino ai tre quarti del secolo scorso e per due motivi. Il primo è che la forza-lavoro di oggi è estremamente sfaccettata, decentrata e disseminata nei territori, per cui se ci aspettiamo che tutto riparta da un equivalente attuale di ciò che furono Mirafiori o Marghera 60 anni fa, non abbiamo capito niente. Proprio questa “disseminazione” sul territorio e l’espansione del mercato capitalistico in ogni anfratto o interstizio della vita sociale delle persone, ha non solo esteso e diffuso le contraddizioni economico-sociali, ma ne ha fatte emergere di altre, nuove o che prima venivano “occultate” da quella fra lavoro salariato e capitale. Oggi, negli accampamenti studenteschi che in tutto il mondo stanno manifestando il proprio sostegno alla Palestina e la propria opposizione al colonialismo e alla guerra, vi sono student*, precar*, migranti di seconda e terza generazione, donne e persone non binarie. Molt* di quest* giovani si mobilitano già da anni sul terreno della difesa dell’ambiente e oggi si mobilitano per la Palestina non solo per manifestare solidarietà a un popolo colonizzato e massacrato, vittima di un’ingiustizia, come quelle che loro vivono nelle proprie vite quotidiane o di cui hanno consapevolezza su tanti altri terreni (quello ambientale per l’appunto). Questa intersezione di contraddizioni porta a un’intersezione di corpi, di movimenti, di idee, di prassi, facendo convergere quest* giovani in un’unica direzione. D’altronde, non fu un’alchimia simile quella che – col potente acceleratore del Vietnam – produsse il Sessantotto? Ecco che forse non tutto del Novecento è morto…