Jason Mott / L’invisibilità del bambino nero

Jason Mott, Che razza di libro!, tr. Valentina Daniele, NNE, pp. 320, euro 19,00 stampa, euro 9,99 epub

Molti anni sono trascorsi dall’uscita di Invisible man, romanzo nel quale Ralph Ellison definiva l’essere nero come una vera e propria malattia dell’anima. Se le persone ti guardano senza vederti, inizi a dubitare della tua stessa identità. Ti guardi nello specchio, per scorgere un volto sconosciuto. In Hell of a book!, vincitore del National Book Award 2021, Jason Mott aggiorna il tema alla realtà odierna. L’invisibilità diviene allora una difesa, un trucco impossibile per sottrarsi al mondo e alla sua brutalità. In Ellison l’invisibilità è una negazione di valore, un gesto di sdegno, mentre in Mott appare come un’utopia di salvezza. Il bambino dalla pelle nerissima come un pozzo profondo, dove la luce non ha mai avuto albergo, immagina di poter eludere gli sguardi degli altri, di poter dimenticare la propria condanna. Scopriremo poi che è stato ucciso da un poliziotto troppo zelante, che la sua vicenda è una delle tante alle quali ci ha abituati la cronaca statunitense.

Il razzismo si mostra in tutta la sua inarrestabile brutalità. La colonna sonora dell’America è quella dei colpi di pistola, dei cortei di protesta e delle tensioni sociali. Mott riesce a costruire un libro originale e ardito, ironico e commovente. Il protagonista è uno scrittore ritratto mentre sta girando gli Stati Uniti nel tour promozionale del suo romanzo di esordio, che si chiama appunto Che razza di libro! Alla sua prima apparizione lo vediamo scappare dalla furia del marito di un’amante occasionale, nudo in un albergo quasi deserto, braccato come un cane randagio. Le sue funamboliche peripezie si alternano a quelle del bambino, chiamato Nerofumo per via della pelle scurissima. Le loro storie si intrecciano in un percorso in bilico fra realtà e immaginazione. Lo scrittore cerca di sottrarsi alle pastoie imposte dal suo essere nero. “Gli scrittori bianchi non devono scrivere per forza dell’essere bianchi. Possono scrivere i libri che vogliono. Ma visto che sono nero…” Una prospettiva immediatamente rovesciata dalla sua agente, secondo la quale “l’ultima cosa di cui la gente vuol sentir parlare è l’essere neri”.

Eppure Mott riesce a parlarne in maniera leggera e profonda al tempo stesso, descrivendo un’America schiava delle armi e della violenza. Anche la scrittura è in realtà una prigione. Mott sembra cercare il modo giusto di narrare la propria storia, una vicenda che sgomenta, quasi troppo grande da raccontare. Tutti vogliono sapere quello che farai in futuro, mentre quello che hai fatto viene consumato in un tempo molto breve. L’invisibilità allora non è solo quella dei neri, ma coinvolge la realtà intera. Nel mondo odierno tutti appaiono come immagini incerte su uno schermo. “Più invecchi, più scopri che sta crollando tutto, e anzi è peggio: crolla tutto da sempre”. I sogni svaniscono sotto la pressione della realtà che affonda i denti nella carne. Alla fine si resta soli, con la consapevolezza che “nessuno cercherà giustizia per le persone come te”. Ne risulta l’immagine crudele di un’America lacerata, costituita da una nazione nata in esilio nel ventre dell’altra, un luogo nel quale bisogna convivere con il dolore, coltivando la fragile utopia della speranza.

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