Jean-Marc Royer / Prima e dopo Hiroshima e Nagasaki

Jean-Marc Royer, Il mondo come progetto Manhattan. Dai laboratori nucleari alla guerra generalizzata alla vita, tr. di Pierluigi Vattimo, Mimesis, ‎ pp. 312, 19,00 stampa

Se ci pensate è difficile in questo momento non pensare al nucleare quando:
A) All’ultimo summit COP28 di Dubai una ventina di Paesi, tra cui Usa, Francia e Regno unito, si sono impegnati a triplicare il nucleare civile entro il 2050. B) Il film più premiato agli Academy Award è stato Oppenheimer, con sette oscar compresi miglior film e miglior regia. C) È in corso una guerra e uno stato nazione con 6.000 testate nucleari ne ha invaso un altro con sei centrali nucleari sul suo territorio. D) La serie del momento, tratta da un popolare franchise di videogiochi, si chiama Fallout e si svolge 219 anni dopo una catastrofe nucleare che ha ucciso il 99% del genere umano.

Pubblicato in Francia qualche anno fa e tradotto ora da Mimesis, il saggio di Jean-Marc Royer, guarda al progetto Manhattan e alle atomiche di Hiroshima e Nagasaki come a un evento spartiacque: il culmine di un’alleanza tra scienza, industria e stato nazione, iniziata almeno un secolo prima, ma, al tempo stesso, il preludio della nostra disastrata fase storica. Nella prima parte del volume l’autore analizza l’eccezionalità del programma atomico americano che nel 1942 vede il mondo della scienza e dell’industria – a cominciare da Du Pont – interamente mobilitato dal governo federale sotto il comando del generale Leslie Groves e la guida di Robert Oppenheimer. Il progetto, senza precedenti, neppure durante la Grande Guerra, e costato oltre due miliardi dell’epoca (circa 30 attuali), è classificato top secret e lo stesso vice presidente, Harry Truman, ne verrà a conoscenza soltanto dopo la morte di Roosevelt nel ’45.  Si calcola che in tutto si siano coordinati non meno di trentadue tra siti, laboratori e università e che i soli impianti di Oak Ridge in Tennessee, creati dal nulla per la produzione di plutonio-239, abbiano impiegato non meno di 50.000 persone.

Come fu chiaro, almeno a partire dal ’43, il progetto non mirava a vincere la guerra con la Germania di Hitler ma a fornire un vantaggio strategico ineguagliabile agli Stati Uniti nel successivo dopoguerra. Per diverse ragioni Americani e Russi fecero di tutto per ritardare l’armistizio con l’Impero giapponese ormai allo sbando, ma per Truman fu praticamente una scelta obbligata: una volta testata nel luglio del ’45, era fondamentale rivelare al mondo la superbomba per non vanificare gli investimenti compiuti nella ricerca e dare via libera alla più mortale e memorabile demo che la storia umana abbia mai conosciuto. Hiroshima e Nagasaki, due città in gran parte risparmiate dai bombardamenti e praticamente prive di obiettivi militari, furono scelte per massimizzare l’impatto sui suoi abitanti ma anche per poterlo misurare con maggiore accuratezza scientifica. A differenza di Auschwitz-Birkenau e dei centri di sterminio nazista, la documentazione dell’orrore di Hiroshima e Nagasaki è stata dal primo momento secretata dalla censura militare e in seguito filtrata da commissioni controllate dagli occupanti americani, preoccupati soprattutto di minimizzare gli effetti della bomba e delle radiazioni nel tempo. Anche la realtà degli hibakusha, i sopravvissuti delle due esplosioni, è stata riconosciuta solo molti anni più tardi e l’unica immagine della bomba che attraverso i media ha sovrastato tutte le altre è stata quella, iconica e terrificante, del “fungo” atomico.

Per Royer, se Auschwitz aveva alle spalle un secolo di darwinismo sociale e di eugenetica, che ha visto – soprattutto nel mondo scandinavo e anglosassone – per decenni medici e scienziati in prima fila nel propagandare l’igiene della razza (uno dei padri del movimento eugenetico, Otmar Freiherr von Verschuer fu non a caso anche il mentore di Mengele), con Los Alamos non si tratta più di industrializzare la morte ma di farne un elemento assoluto, totale. L’atomica non segna tanto l’inizio dell’Antropocene quanto l’affermazione di un complesso scientifico, industriale e militare monopolistico e ormai perfettamente integrato che dominerà i Trenta Gloriosi in Occidente. La nuova età atomica dischiude l’innovazione che, dalla cibernetica alla biogenetica, a partire dagli anni ’50 – quando Eisenhower e Teller fantasticano di aprire un secondo canale di Panama con 300 atomiche – si imprime nell’accelerazione senza precedenti dei consumi e nell’estrazione tecnoscientifica del valore da qualsiasi cosa.  Come si capirà ben presto il nucleare non è infatti un’arma né semplicemente un simbolo di status geopolitico, quanto un modello di capitalismo necrofilo che, prendendo in ostaggio il vivente in qualsiasi sua forma, nega altro futuro da se stesso (salvo poi gettare la cenere sotto il tappeto, a Three Mile Island come a Chernobyl, a Fukushima come a Zaporižžja).

Il saggio, citando Anders, Arendt e Castoriadis, sottolinea come le uccisioni di massa e le guerre industriali del XX secolo siano figlie a pieno titolo del progresso scientifico non meno che del totalitarismo di ogni colore, compreso quello delle democrazie, e come il Trinity Test stesso discenda da Einstein, Bohr e dalla fisica del suo tempo. La questione posta dal saggio va al di là dell’adesione o dell’obiezione morale dei singoli scienziati, che l’autore registra nella sua ricostruzione storica, e chiama in causa direttamente il progetto che la modernità ha perseguito da un lato attraverso l’impresa scientifica, dall’altro con il feticismo della tecnologia con cui non ha smesso di mobilitare il desiderio. Nella sua veste “civile”, non meno che in quella “militare”, questo intrico ha preso possesso dell’immaginazione sociale e, secondo Royer, è anche la vera perversione che Freud aveva intuito da ultimo senza però denunciare. Da cui oggi, nel fiorire delle credenze, scatenate come anticorpi impazziti, solo uno scarto inedito dell’immaginario ci potrebbe salvare, restituendoci un futuro nuovamente vivibile.