Kairos, libro complesso, ricco, colto, in cui passione e Storia si avvicinano al punto di coincidere e di promuovere a paradigma di un’epoca l’appassionata vicenda d’amore tra Katharina e Hans. Lui maturo intellettuale di stato nella DDR, lei giovanissima e appassionata studentessa di teatro e d’arte. Su di loro incombe la fine della Guerra fredda, il dissolversi di utopie più o meno funeste, l’archiviazione della Seconda guerra mondiale, l’epilogo del socialismo autoritario, la vittoria del capitalismo consumista. Jenny Erpenbeck al suo quarto romanzo propone una riflessione profonda sul senso della Storia, sulla cultura e su come la passione umana sia capace di una straordinaria sintonia con la vita collettiva, con le paure, le attrazioni e gli impulsi quasi spontanei e inevitabili del coraggio.
Innanzitutto il titolo: Kairos. I greci avevano quattro parole per riferirsi al tempo e Kronos è la più nota. Kronos è il tempo della fisica classica, sequenziale, misurabile, direzionato e percepibile dagli umani nel suo trascorrere. Aion invece, è il tempo eterno, trascendente e assoluto, che supporta il susseguire delle ere. Eniautos era usato per definire gli intervalli di tempo definiti, come l’anno e poi, in senso più largo, qualsiasi periodo di tempo fisso e determinato, ma Kairos, il tempo nel mezzo, è un periodo indeterminato nel quale accade qualcosa di importante. È un tempo buono legato alla nostra esistenza. Se Kronos ci è familiare perché rappresenta la dimensione quantitativa del tempo, Kairos è un tempo di qualità, delle occasioni, delle svolte, è il tempo delle opportunità. Nell’idea mitica, il dio Kairos è raffigurato come un giovane dai piedi alati e con un ciuffo di capelli sulla fronte, ed è la personificazione del momento giusto, delle scelte d’stinto e coraggiose. Senza esitazione il dio deve essere preso per il suo ciuffo, prima che l’occasione passi e Kairos sfugga per sempre.
La lettura di Kairos è pervasiva perché richiede al lettore di immergersi nelle vicende tormentate dell’amore di Katharina e Hans quanto nelle vicende della cultura della DDR, di cui sono imbevuti i protagonisti. Erpenbeck sembra denunciare la cappa che è stata calata sull’esperienza della DDR e su ognuna delle vite delle persone che vi abitavano e che, volenti o nolenti, erano cresciute, in parte adattandosi, in quella società autoritaria e socialista. Molte di quelle vite hanno emotivamente perduto tutti gli anni precedenti alla dissoluzione e conquista della DDR da parte della BRD, assistendo inermi alla dissoluzione dei molti aspetti che avevano apprezzato e a cui erano affezionati. Erpenbeck rompe un’omertà culturale durata quasi quarant’anni per restituire verità a quelle vite usando un linguaggio che è diametralmente opposto a un’ostalgia superficiale fatta di cimeli e gadget e che riesce a descrivere laicamente quella utopia mai realizzata.
La famiglia di Jenny è un elemento importante del romanzo, sembra un coro sommesso che prende corpo quando la musica continuamente evocata nel testo tace. Suo nonno paterno, Fritz Erpenbeck, a partire dai primi anni Venti era stato militante comunista, giornalista, attore e regista teatrale. Sua moglie era la scrittrice e attrice comunista Hedda Zinner. Entrambi fuggirono dalla Germania con l’avvento del nazismo, vivendo da esuli prima a Praga e poi in Unione Sovietica, sempre impegnati nelle strutture dei comunisti tedeschi in esilio. Furono scelti nel Gruppe Walter Ulbricht, che riorganizzò la parte del territorio tedesco sotto il controllo sovietico e fondò la DDR. Fritz lavorò in quella nuova cultura, non senza tensioni, fino al 1975, la data della sua scomparsa, quando Jenny aveva sette anni, mentre Hedda, diventata scrittrice, morì nel 1994. Il loro figlio John Erpenbeck, nato in esilio in Unione Sovietica, è diventato biofisico, ricercatore in campo nucleare e cosmologico, studioso dei fenomeni percettivi e, infine, di storia e filosofia della scienza. La sua prima moglie, Doris Kilias, è arabista e traduttrice, e ha subito il demansionamento da parte delle commissioni di valutazione della Germania federale che avevano il compito di smantellare la struttura culturale e scientifica della DDR. La loro figlia è la scrittrice che ha vinto l’International Booker Prize 2024 con Kairos, Jenny Erpenbeck, ed è di persone come queste che parla il suo romanzo. Hans e Katharina sono due intellettuali che, pur lamentando una non piena libertà espressiva e disapprovando le misure di emarginazione attuate nei confronti di colleghi dissidenti, hanno stabilito un equilibrio con le direttive di Stato. Ma sono studiosi appassionati, colti, sinceri, imbevuti di una cultura diffusa nata nell’antifascismo tedesco che ha avuto il teatro, la poesia e la musica come elementi fondamentali di quell’identità nazionale. Per questo hanno sempre un lavoro adatto alle loro competenze, accesso gratuito agli studi, un appartamento, soggiorni autorizzati all’estero, periodi di vacanza. Hans, nato prima del conflitto mondiale, è uno di quei tedeschi che era stato sottoposto all’educazione delle strutture giovanili naziste e che aveva subito la miseria della sconfitta, ma che ha trovato nella repubblica antifascista della DDR riscatto e dignità. Katharina, più giovane, ha usufruito di un onesto benessere, morigerata e anticonsumista, in un clima diffuso di libertà sentimentale e sessuale, cultura e amicizia. Erpenbeck scrive nel romanzo che l’arte ha il compito di “rendere non ovvio ciò che è ovvio” e questo disvelamento accompagna tutta la vicenda di Kairos.
Kairos è un romanzo a ritroso che parte con la scomparsa del protagonista maschile. Una Katharine diventata matura analizza il contenuto di scatole che contengono lettere, note e ricordi che vanno dal 1986 al 1992, tutta la sua vita trascorsa clandestinamente assieme a Hans. Parole, osserva, “scritte per ingannare convivono con le parole pensate come verità”. La facilità con cui inizia la loro storia d’amore ha sullo sfondo la sobrietà della Berlino Est con i caffè, le biblioteche, i centri culturali, i teatri. Le memorie dei protagonisti si sovrappongono descrivendo il loro mondo segreto (o forse il loro tempo segreto) alla luce di una riflessione di Walter Benjamin tratta da Sul concetto di storia (1940) che recita: “Articolare storicamente il passato non significa riconoscerlo come è stato veramente. Significa impadronirsi del ricordo che lampeggia nell’attimo del pericolo”. Attimi che diventano proiezioni di un rapporto continuo tra Storia e coloro che ci vivono all’interno. Ma Benjamin, come molti fantasmi della cultura tedesca, anima, e come un suggeritore del teatro scandisce tutta la narrazione di Kairos. Hans e Katharina si muovono nella parte di città all’ombra del Muro e ne godono come il flaneur di Benjamin, ma passeggiano e attraversano una città che è destinata a scomparire per sempre, divorata dal capitalismo vendicativo, affamato di ogni risorsa economica e intellettuale della DDR. Al lettore di oggi la loro vita di coppia clandestina si affianca alla cittadinanza clandestina, perché rimossa, di Berlino Est, e il loro stesso amore finito rivive nel ricordo di una cittadinanza segreta che ha partecipato che si opponeva a un Occidente superficiale e corrotto con il linguaggio martellante dell’utopia. In una intervista su Die Zeit, Epenbeck scrive efficacemente: “La libertà non mi è stata regalata, l’ho pagata con tutta la mia vita fino a quel momento”. Senza rimpiangere il passato ne constata l’insopprimibile importanza. A un certo punto scrive: “Se il nonno non fosse riuscito a fuggire la sera del 30 gennaio 1933, o se in Spagna fosse caduto nelle mani dei fascisti, o se dopo in Francia qualcuno lo avesse tradito e consegnato ai tedeschi, allora anche lui sarebbe scivolato anzitempo sottoterra, e allora lei Katharina non sarebbe nata”. In poche righe trasmette l’amarezza verso un passato che viene annullato, che scompare, e che non è mai solo pubblico, collettivo, ufficiale, politico ma sempre indissolubilmente legato all’identità personale, all’essere come individuo, senza necessariamente averlo condiviso in maniera assoluta. E ancora scrive: “di tanto in tanto preferirei poter dimenticare qualcosa”. Ma Katharina e la scrittrice dietro di lei sanno che non è possibile, a meno di soffocare una parte di sé che è enorme. È una conseguenza di un sentimento che Katharina descrive con grande lucidità, svelando che ciò che prova verso lo Stato è distanza, non opposizione.
La visione di Erpenbeck non elude le contraddizioni e gli errori ma li contestualizza in una visione rigorosa della storia che cerca le interconnessioni tra le azioni dei singoli e lo spazio e il tempo della collettività. “Quale causa potrebbe mai essere così imprescindibile da unire in unico respiro vittime e carnefici? Da trasformare addirittura i carnefici in vittime e le vittime in carnefici, al punto che nessuno saprebbe più dire chi è veramente? Arrestare ed essere arrestati, picchiare ed essere picchiati, tradire ed essere traditi, finché speranza, altruismo, cordoglio, vergogna, colpa e paura non siano inestricabilmente intrecciati in ogni singolo corpo.” Nel romanzo non ci sono sconti per l’ottusità della classe dirigente della DDR, anche se è chiaro che all’inizio era composta di reduci dei lager, esiliati in Unione Sovietica e partigiani operativi nelle città tedesche: dei sopravvissuti. Come nelle parole del loro indimenticabile inno di Hanns Eisler e Johannes Robert Becher: “risorti dalle rovine e rivolti al futuro”.
Tuttavia anche il loro amore si rivela una brutta utopia, si degrada in un’ossessione di possesso e di accettazione. Katharina è consapevole che noi siamo una particolare parte di noi che gli altri determinano, e che senza la violenza e la dipendenza che ha caratterizzato quell’amore lei stessa non sarebbe, almeno non sarebbe come è mentre rilegge gli appunti nelle scatole ereditate da Hans. E quando il saccheggio della DDR si è concluso, l’amore è finito. Una interessante documentazione storica sulle fasi successive alla caduta del Muro di Belino si possono trovare nel documentario Un omicidio irrisolto: il caso Rohwedder di Christian Beetz e Georg Tschurtschenthaler (2020).
Una menzione speciale va alla traduzione di Ada Vigliani, per aver saputo rendere in italiano la complessità di un testo in cui le citazioni affiorano a vari livelli. Alle descrizioni, alle riflessioni e ai ricordi, si intrecciano i versi della poesia tedesca da Friedrich Hölderlin a Bertolt Brecht, e poi Heinrich Heine, Johannes Robert Becher, Kurt Walter Barthel, Wolf Bierman e moltissimi altri. Sono versi che entrano nel testo con il loro corsivo e, nella maggior parte dei casi, è molto difficile scoprirne l’autore, almeno per il lettore italiano. Il risultato è un testo in traduzione raffinatissimo e impegnativo che difficilmente potrà esser dimenticato.
In Chausseestraße, poco distante dall’ultima abitazione di Brecht ed Helene Weigel, si trova il piccolo cimitero di Dorotheenstadt, nella Berlino Est del Mitte, a meno di un chilometro dal Berliner Ensemble, che oggi si affaccia su Bertolt Brecht Platz. Lì, assieme a Brecht e a sua moglie Helene, sono sepolti Hegel, Eissler, Franz Erpenbeck, Fichte, Christa Wolf, Heinrich Mann e centinaia di altre personalità della politica e della cultura tedesca, molti avevano vissuto l’esperienza della DDR, molti avevano afferrato il ciuffo del dio Kairos.