Knud Rasmussen / La grande isola “inuit”

Knud Rasmussen, A nord di Thule, tr. di Bruno Berni, Iperborea, pp. 258, euro 18,50 stampa

Che Trump rivendichi per sé e per i suoi onnipotenti USA la Groenlandia fa ridere, o piangere, e comunque è una boutade che fa scalpore e il giro del mondo, attirando biasimo e sberleffi in egual misura. Eppure, per quanto sia incredibile, non è una novità: lo status di quella che è l’isola più grande del mondo è rimasto a lungo indeterminato, incerto, e in epoca coloniale, prima che la Danimarca affermasse definitivamente (?) la propria sovranità su quelle terre scabre e affascinanti, gli Stati Uniti avevano già avanzato le loro pretese, fondandole su una scoperta che si sarebbe poi rivelata una clamorosa bufala storico-geografica: nel 1892 l’americano Robert Peary, figura discussa di esploratore artico (nel 1909 millantò di aver raggiunto per primo il Polo Nord, impresa messa in dubbio già dai suoi contemporanei e della quale non furono mai fornite le prove), si spinse nel nord della Groenlandia in una delle sue numerose spedizioni cartografiche e battezzò con il nome di “Independence Bay” un fiordo da lui scoperto (con tempismo perfino sospetto: disse che ciò era avvenuto il 4 luglio, il giorno dell’“Independence Day”) e che ancora porta quel nome. Ma Peary compì un errore, o forse fu un arbitrio deliberato: riferì che quel fiordo in realtà tagliava in due la costa settentrionale della Groenlandia, separandola di fatto in due isole, la seconda delle quali, quella che puntava verso l’Artico, ancora inesplorata e soggetta alle rivendicazioni territoriali di chi avesse piantato su di essa la propria bandiera. Rivendicazioni che non mancarono, da parte degli Stati Uniti: e fu proprio per mettere un argine a ogni possibile disputa che la Danimarca si mosse, organizzando una serie di spedizioni volte a dimostrare la fondatezza o meno delle rilevazioni di Peary.

La storia racconta di numerose imprese che si succedettero all’inizio del Novecento, molte delle quali tragiche, tutte avventurose: l’introduzione di Bruno Berni a questo volume, di cui è anche l’ottimo traduttore, ne offre un sintetico ma appassionante compendio: basterà qui dire che fu solo nel 1912 che si arrivò a stabilire la verità, e grazie alla spedizione di Knud Rasmussen, della quale A nord di Thule è il dettagliato, quotidiano resoconto: il cosiddetto Canale di Peary non esisteva, il fiordo scoperto dall’esploratore americano si interrompeva dopo un centinaio di chilometri dalla sua imboccatura sull’Oceano Glaciale Artico e la Groenlandia era un’unica isola ininterrotta.

Ma se la vicenda è appassionante fin dalle sue premesse, è il diario di Rasmussen, figura leggendaria di esploratore e naturalista danese, a rappresentare un vero gioiello: perché la sua cronaca non è affatto ancella delle motivazioni politiche che spingevano la Danimarca a sostenere e finanziare le spedizioni groenlandesi, mascherando di nobili intenti scientifici le proprie mire egemoniche, ma riferisce con vivida spontaneità la quotidianità di un’impresa condotta ai limiti della sopravvivenza, senza mai smarrire, tuttavia, la bussola dell’entusiasmo e la lucidità dello sguardo dello scienziato e dell’etnografo.

La testimonianza di Rasmussen, in effetti, è esemplare e preziosa non soltanto per i dati di carattere geografico e naturalistico che offre, ma soprattutto per le notazioni di carattere etnografico, per la nitida raffigurazione delle popolazioni che abitavano quelle terre remote, coloro che lo stesso Rasmussen e gli imperialisti europei chiamarono a lungo “eschimesi” e che Berni correttamente traduce con inuit, adeguando in modo non arbitrario la loro oggi finalmente riconosciuta dignità alla lingua corrente, in un modo che lo stesso Rasmussen avrebbe certamente condiviso e apprezzato, lui che discendeva in parte da loro (se ne vedono i tratti sfocati nelle fotografie che ci sono tramandate di lui, alcune delle quali presenti in questo volume: giovane e bellissimo, o uomo un po’ più maturo, prima della morte che lo colse prematuramente a cinquantuno anni nel 1933). Un libro che vive, che vibra, che sa di frontiera e che, anche là dove il suo narratore sembra mancare di fiato, sopraffatto dalle distese desolate di una natura grandiosa e ostile, non dimentica mai di guardare all’umano.