Lanfranco Caminiti / Riscrivere l’insurrezione dei Fasci siciliani

Lanfranco Caminiti, Chistu nun è nu romanzu. I Fasci siciliani dei lavoratori (1892-1894)Sellerio, pp. 264, euro 20,00 stampa, euro 13,99 epub

«Di stu gran casu minni maravigliu»
G.G.Calogero, poeta contadino, Pietraperzia, 1894

In Chistu nun è nu romanzu, Lanfranco Caminiti sembra proporre un banale gioco di rimandi, ma in realtà l’eco scolastica e enigmatica della pipa di Magritte colpisce ancora. Fin dal titolo questo libro si configura come una dichiarazione teorica e politica. Caminiti si muove sul terreno della rappresentazione e della sua crisi, interpellando direttamente il lettore su cosa sia un racconto, una storia, un romanzo – e se sia possibile dire un’insurrezione che non ha ancora trovato un nome, o che è stata rimossa dalla storia ufficiale, come quella dei Fasci siciliani dei lavoratori del 1892-1894.

Ma se Chistu nun è nu romanzu, allora cos’è? Un atto documentario? Una cronaca? Un saggio? Un montaggio? Un canto epico interrotto? Come nell’opera di Magritte, il titolo non spiega ma destabilizza. Crea una sospensione del senso, una frattura tra segno e significato, tra parola e cosa, tra rappresentazione e realtà. Caminiti lo ripete in forme diverse: l’insurrezione contadina non è stata detta, non per caso, ma per una rimozione strutturale, una cancellazione politica e simbolica. Eppure, tra il 1892 e il 1894, in Sicilia si sollevarono migliaia di contadini, operai, donne, braccianti, zolfatari, carusi, un movimento diffuso, organizzato, solidale, che sfidava monarchia, latifondo, mafia e Stato liberale. Caminiti mostra che non fu solo protesta economica o proto-sindacale, ma rottura politica ed epistemica: un popolo che prende forma, parola, organizzazione.

Caminiti non racconta la storia dei Fasci: la compone, giustapponendo atti parlamentari, verbali, cronache, documenti giudiziari della pesantissima repressione di cui furono oggetto, fino alle cronache delle vere e proprie stragi, riservando a se stesso una riflessione sul nesso narrazione-insurrezione. La memoria ufficiale li ha relegati ai margini: “ingenui”, “violenti”, “primitivi”, “istintivi”. I socialisti li hanno giudicati “immaturi”, privi di coscienza di classe, sulla scia di Labriola ed Engels interpellato in proposito da Anna Kuliscioff. Ma Caminiti insiste: il linguaggio storico e socialista non ha saputo riconoscere l’insurrezione perché usava categorie inadatte. I Fasci sono stati messi a tacere non perché indecifrabili, ma perché intollerabili nella sfida che rappresentavano al potere. Così la forma-romanzo, la linearità narrativa, la psicologia, la rappresentazione epica o vittimaria, non bastano, anzi tradiscono. L’autore ci consegna allora un testo che frammenta la sintassi, sospende la cronologia, usa ripetizione, interrogazione, poesia, come se ogni parola venisse dal corpo in rivolta.

Non mancano i nomi: Verro, Barbato, De Felice, Bosco. Non mancano i luoghi: Palermo, Corleone, Piana, Lercara. Non manca l’elenco preciso e certosino di tutte le manifestazioni e di tutti i condannati. E le popolazioni – compresa la minoranza albanese – con le loro donne protagoniste e senza paura. Ma non è una cronaca: è un’epopea muta, un canto di chi non ha avuto voce. La sua insistenza non è sulla “storia” ma sull’evento: qualcosa accaduto e che continua ad accadere nel silenzio. Ogni insurrezione che non si può nominare si ripete come ferita aperta nella lingua, nella politica, nella giustizia.

Nel volume Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie (DeriveApprodi, 2007), Caminiti affronta in modo analogo i conflitti degli anni ’70 e degli autonomi, che sviluppano coscienza del lavoro e dell’alienazione, entrando in conflitto col PCI, che cerca di governare il cambiamento con logiche di controllo. Quando la coscienza si sposta interamente fuori dal Partito, nasce lo scontro interno alla sinistra. Il PCI risponde con l'”autonomia del politico”, l’autonomia operaia viene repressa e accusata di terrorismo. Nonostante la sconfitta, rappresenta una frattura irriducibile e “lo ‘stato nascente’ di una nuova classe del lavoro. Ora è qui”.

Ma torniamo al titolo: usare il dialetto significa parlare dalla Sicilia, non solo della Sicilia. Caminiti non è osservatore esterno, né narratore accademico: è dentro la storia che racconta. Il dialetto, dice da dove si scrive e per chi. È un modo per dire: questa è la mia lingua, quella dei contadini, dei nonni, dei sovversivi, non quella del potere. Il dialetto siciliano è stato considerato lingua minore, subalterna, folclorica. Caminiti lo usa come lingua della rivolta, per decostruire la lingua nazionale, istituzionale, letteraria che ha addomesticato la storia. Chistu nun è nu romanzu suona come una bestemmia contro l’italiano “corretto”: è insubordinazione verbale. Usare il dialetto è atto di rottura e fedeltà insieme. Caminiti rompe con la lingua dominante e resta fedele alla lingua storica degli insorti, quella mai registrata nei verbali ufficiali ma gridata, cantata, imprecata nei giorni della rivolta. Ma c’è sottigliezza nel suo gesto: il dialetto nel titolo è soglia, non maschera. Non finge di essere altro, né pretende di parlare “come loro”. Non scrive il libro in siciliano, e questo è significativo. Non si mimetizza, non imita, non si sostituisce. Sa che quella lingua non è più del tutto sua. Non vuole fare folclore, né etnografia. Il dialetto solo nel titolo è rispetto, non travestimento. Il titolo in siciliano è una dedica implicita, una citazione: come se desse voce a qualcuno che non ha potuto raccontarsi. Caminiti si decentra: non prende la parola al posto di, ma crea uno spazio perché quella parola possa ancora risuonare.

Non si appropria della lingua dei Fasci, ma la evoca, la chiama sulla soglia. Dice: “Questa storia, per essere ascoltata, chiede un’altra lingua – quella che abbiamo perduto o fatto tacere.” Il libro infatti è in italiano, sì, ma un italiano con l’eco del dialetto: nei ritmi, nei nomi, nei frammenti orali, nei documenti. Caminiti scrive da una frontiera linguistica dove l’italiano si misura con ciò che ha escluso. Il dialetto nel titolo è segno di questa tensione: lingua che non diventa stile perché è memoria viva, scomoda, resistente.