La scrittura di László Krasznahorkai scaturisce da un’incessante attività del pensiero, da una dissezione maniacale di ogni singolo dettaglio di quella intricata, incomprensibile trama che compone il cosmo. Avanti va il mondo è un insieme di invenzioni apparentemente eterogenee, in realtà legate da un filo sottile. Sin dall’inizio entriamo in un meccanismo spietato, inquinato da una pericolosa inclinazione al soliloquio che ricorda Thomas Bernhard. Uno stile labirintico, ipnotico e perturbante, come una corrente percorsa da frasi infinite, che nasconde una grande compassione per il genere umano. Si precipita nel pensiero come in un pozzo, perché senza di esso siamo nulla, ma anche con il suo ausilio non riusciamo a dirimere gli eterni interrogativi che ci opprimono.
Sin dalle prime pagine ci troviamo di fronte a una dialettica paradossale: non è possibile restare in un luogo a tutti gli effetti ostile, un posto dal quale occorre fuggire, ma la direzione da prendere è incerta. Si potrebbe andare da una parte o dall’altra, in maniera indifferente, e per questo si sceglie di vagabondare da fermi; l’inerzia assoluta è la condizione dell’uomo moderno. Alla Wanderung romantica, vagabondaggio dello spirito pregno di significato, si sostituisce un immobilismo privo di prospettive. “Prigionieri di uno stato mentale inceppato”, gli uomini si agitano in un vuoto senza speranza, impotenti e indifesi. Il meccanismo dell’universo resta per noi incomprensibile. Riconosciamo le cose solo a posteriori mentre, quando sono presenti, non ce ne rendiamo conto, o forse non le vediamo affatto. Le grandi svolte del mondo accadono improvvisamente, e noi “ci siamo ritrovati in un periodo radicalmente nuovo, di cui non stiamo capendo assolutamente nulla”. Il linguaggio si rivela fallace. Bisognerebbe forgiarne o apprenderne un altro, ma le forze vengono meno. Allora si può solo rimanere a osservare, mentre l’angoscia cresce dentro di noi.
La prima parte del libro, denominata “Parla”, ci pone di fronte a narrazioni dal tono saggistico, emblematiche della maniera dell’autore. In Sulla velocità un uomo vuole essere più rapido del pensiero per superarlo. Il viaggiatore metafisico aspira essere più veloce della Terra che ruota. In Vogliamo dimenticare l’aspirazione è quella, impossibile, di allontanarci da noi stessi. La costante di Teseo, il più esteso in questa prima parte della silloge, richiama l’arrivo del circo e della balena gigantesca, fulcro del romanzo Melancolia della resistenza. L’enigma si materializza, mettendoci di fronte alla totale mancanza di senso del nostro esistere. Lo spettacolo della balena è anche un’iniziazione alla tristezza, che marchia in maniera indelebile il narratore. Un misterioso conferenziere, rinchiuso in un castello che forse non potrà più lasciare, diletta un pubblico invisibile con le sue elucubrazioni. Atmosfere claustrofobiche di derivazione kafkiana percorrono il racconto. Per qualche motivo misterioso uno spirito fugge dalla bottiglia nella quale era celato; è il genio della guerra e del piacere della distruzione, al quale non si può resistere. Derive del pensiero che, paradossalmente, dichiarano la propria impotenza a decifrare il mondo. Arriverà la fine, e sarà incomprensibile come è stato l’inizio. L’unico esito è il nulla. Siamo immersi in una complessità infinita che ci irride: “ricordare – è l’arte del dimenticare”.
Nella seconda parte, “Racconta”, il filosofeggiare lascia spazio a una narrazione geograficamente erratica, che può ricordare le peregrinazioni di Vollmann. Un interprete simultaneo si perde nei meandri di Shanghai, megalopoli assediata da un rumore continuo, un tessuto urbano preda del caos. Per attenuare il dolore che lo assale si blocca in uno stato di completa paralisi, rinuncia a qualsiasi movimento del corpo e della mente. In realtà si trova intrappolato in un groviglio autostradale da incubo, nel grande incrocio dei Nove Draghi, un posto in cui non si può restare. Un ragazzo scheletrico lavora in una cava, accetta il giogo come tutti gli altri, l’anima infestata per sempre dal rumore e dalla polvere. Il suo tentativo di fuga si rivela un’irrealizzabile utopia. Un uomo riceve una videocassetta da parte di un amico regista, il quale muore prima di potergli esporre il proprio progetto, quello di un film che possa svelare l’essenza della realtà. Un affarista si reca a Kiev e vorrebbe visitare la Zona, non i monumenti della città ma i dintorni della centrale di Cernobyl, che ancora seguita ad emettere radiazioni, per incontrare quella forza che l’umanità ha messo in moto e che non può più fermare. In una Varanasi ammorbata dall’odore della putrefazione un viaggiatore cerca di sfuggire alla follia che lo minaccia; l’enormità del Gange addita la morte e i segreti che la vita custodisce. Un vecchio ricoverato in una casa speciale per anziani, intontito dai farmaci, vorrebbe librarsi in volo, come fece Gagarin, il primo astronauta nello spazio, un uomo distrutto da quello che aveva visto, che era di una bellezza intollerabile, un uomo letteralmente consumato dal segreto millenario con il quale era venuto a contatto. Nell’ultimo racconto il lettore deve fronteggiare innumerevoli pagine bianche, seguite da un gruppo di note su un testo invisibile; una provocazione, una ennesima conferma della nostra impotenza di fronte a un mondo indecifrabile. Conclude il libro la parte terza, brevissima, dal titolo “Saluta”, nella quale il narratore si accomiata dal suo pubblico. Quel che resta, alla fine, è lo stupore abissale, il non poter comprendere il mistero nel quale ci troviamo a vivere.