Louis-Ferdinand Céline / Materia incandescente nella notte del mondo

Louis-Ferdinand Céline, Londra, tr. di Ottavio Fatica, Adelphi, pp. 505, euro 25,00 stampa, euro 17,99 epub

Avevamo lasciato Ferdinand sul traghetto diretto in Inghilterra proprio nelle ultime pagine di Guerra, in fuga dal fronte e dalle follie – militari e non – delle retrovie, a seguito dell’amante, la giovane prostituta Angèle e del maturo e facoltoso maggiore britannico Purcell, di cui è la mantenuta. Lo ritroviamo – quasi uguale: ancora sofferente per le ferite subite, un braccio quasi paralizzato, vertigini ricorrenti, un orecchio sordo invaso da un acufene insopportabile che gli impedisce il sonno – in Londra, accodato a un colorito gruppo di magnaccia e prostitute francesi operanti nel quartiere a luci rosse di Leicester Square: quasi tutti gli uomini, come lui, sono disertori o renitenti alla leva che rischiano il plotone d’esecuzione o l’immediato reimpiego in prima linea in un battaglione di disciplina se acchiappati dalla (per il momento ancora accettabilmente rilassata) polizia inglese. C’è Cantaloup, pappone saggio e con una sua etica; Borokrom, ex anarchico bombarolo, musicista, attaccabrighe e erotomane di origine bulgara; il capitano Lawrence Gift, baronetto inglese impoverito e alcolizzato ma ancora proprietario di un castello ormai quasi in rovina nei dintorni di Londra dove accoglie la variegata combriccola per orgiastici festini; Charles Lemosina, magnaccia pittore e Rodriguez Ostenda, giocatore e saltimbanco, forse di origine argentina; Bijou, spia e informatore della polizia di cui nessuno si fida; Tresore, l’italiano che taglia le dita alle ragazze quando gli disubbidiscono; Yorick, vecchio scozzese in kilt che suona il flauto perché non ha più abbastanza fiato per la cornamusa; Yugenbitz, medico ebreo polacco, fra l’altro procacciatore di aborti; il maggiore Cecil B. Purcell, rivale e finanziatore di Ferdinand, che mantiene l’amante comune Angèle e la di lei sorella minore Sophie, trascurandone le disponibili grazie solo per dedicarsi alla maniacale progettazione di nuovi e rivoluzionari modelli di maschere antigas da utilizzare nel conflitto; Julien Tregonet detto Stocazzo, “reclutatore” di nuove pulzelle, sbruffone e vanaglorioso, ha perso un occhio in battaglia ed è il più violento e irresponsabile del gruppo; poi un florilegio di più o meno stolide fanciulle, quelle che battono – dall’attempata Ursule alla giovane Gioconda – le mantenute – Angèle e la sorella minore Sophie – la sentimentale domestica Mabel, la ballerina americana Lady, bellissima e appartata; infine la famiglia Peacock, saltimbanchi lanciatori di coltelli, che non disdegnano, figlie minori comprese, di partecipare alle frequenti orge a base di sesso e alcool degli inquilini della Leicester Pension; c’è perfino il gatto Miao addestrato da Rodriguez ad abbattere candele accese, che scatenerà un devastante incendio.

Scandito nelle sue oltre cinquecento pagine in tre parti – la prima più curata e compiuta, le altre due forse leggermente meno smaglianti – il romanzo, per quanto complessivamente non altrettanto nitido di Guerra, entra a mani basse fra le opere più significative di Céline e contribuisce a rendere l’inaspettato ritrovamento di inediti perduti  che ce lo ha reso disponibile – per chi fosse interessato a conoscere tutti i particolari in proposito si consiglia la lettura di Jacques Joset, I tesori ritrovati di Louis-Ferdinand Cèline, Eclettica Edizioni 2024 – una capitale acquisizione letteraria. Come ci spiega la dettagliata postfazione del curatore Régis Tettamanzi, Céline dopo il trionfo del Voyage, aveva progettato di scrivere un trittico basato sulle parti della sua vita che non avevano trovato spazio nel suo primo libro: Enfance – Guerre – Londres. Il primo, che lo prenderà a tal punto da fargli abbandonare gli altri due progetti, diventerà Morte a credito, il suo secondo libro; gli altri due resteranno in prima stesura e andranno perduti nel 1944, ma rifioriranno in forma completamente diversa (e non necessariamente più riuscita) in due opere del tutto autonome, Guignol’s Band (1944), Guignol’s Band II: Le Pont de Londres (1964) e Casse-Pipe (1952). Se Casse-Pipe potrebbe essere un possibile antefatto di Guerre, Guignol’s Band è una riformulazione completa di Londres in cui semplicemente ricorrono alcuni nomi, alcuni personaggi (spesso del tutto diversi) e il fascino della città inglese. Sulla percentuale di autobiografia autentica presente nei testi è sempre difficile valutare: il Ferdinand letterario è probabilmente una versione alquanto ingaglioffita e criminalizzata del giovane Destouches che, regolarmente riformato per la grave ferita subita in combattimento, visse sì a Londra per un anno dalla primavera del 1915, ma lavorando all’ufficio passaporti del consolato francese in Bedford Square e non certo sopravvivendo da fuggiasco e magnaccia: frequentò sicuramente le prostitute e i locali equivoci di Soho, per passatempo, ma i suoi contatti reali con la “mala” francese e inglese furono più che altro turistici e presumibilmente non partecipativi, a parte un breve matrimonio, neanche registrato in Francia, con un’entraîneuse francese conosciuta in un music-hall, probabile modello del personaggio di Angéle.

Autobiografico o meno, il romanzo è senza dubbio il più violento, sordido e pornografico mai scritto da Céline, il fatto che giunga direttamente da una prima stesura senza epurazioni e interventi censori lo rende assolutamente esplicito: non le affascinanti parafrasi ed ellissi del Voyage, né i tagli imposti dall’editore di Mort à crèdit, qui tutto il dicibile è detto e il sublime immondo celiniano raggiunge il suo culmine. Un esempio: «Vado in bagno a riflettere. C’era la figlia dei Peacock che leccava la fregna ad Angéle che era seduta sul cesso e dopo lei ha fatto pipì in bocca alla cantante che era bella ingorda. Lemosina godeva a segarsi di brutto sull’asciugamano di spugna. Aveva la testa rovesciata Angéle, erano in quattro sopra di lei a carezzarla, a smanacciarla. Lemosina strappava qualche pelo. Lei cacciava un grido e poi si abbandonava. Da come si accanivano sembrava che volessero tirargli fuori l’anima. Ce n’è un mucchio di arrapati sopra di lei, una massa che si distende e si contrae come un vero cuore. Godo anch’io per forza ma ogni volta mi fiacca veramente troppo. Ecco allora che Angéle mi bacia con una tenerezza che non conoscevo, come fossi il suo bambino perduto. Mi fa ancora paura. Mi tiro indietro. È vero che non la amo più di tanto. Sono ossessionato dalla chiamata alla mattanza, dalla prigione, dalla voglia di curare la gente e anche dalle gambe dell’americana che danno slancio a tutto quanto, dentro di me, al mio piacere. Per Angéle provo solo interesse. Non glielo dirò, lei si porta dentro un’angoscia, come me».

E come sempre al registro sordido e disgustoso, a quello tragico e grottesco, si affianca inesauribile il comico, rabelesiano e in certi casi quasi slapstick come nella paradossale battaglia a sputacchi fra Ferdinand e Stocazzo su un taxi: «‘E pure alla tua ganza, Ferdinand, ci sputo in faccia!’ E cruasc! Le spara un grosso scaracchio in pieno muso! ‘E uno anche alla pupattola!’  E un altro cruasc!… bello grasso sull’angolo del mento di Sophie. Le ragazze non reagiscono, si puliscono. Toccava a me incazzarmi. […] A quel punto non bisognava mollare… tiro su dal fondo del naso un bello sputacchio, lo appallottolo in bocca, pfatt! Glielo rifilo anch’io a getto pieno che si spiaccica sull’occhio che gli resta. ‘Ah pezzo di merda!’ soffoca. ‘Come osi?’. S’impiastriccia di sputo tutta la bocca. Gliene sparo altri due all’altezza del collo. È tutto appiccicoso. […] Il taxi è davanti all’ingresso. A furia di sputarci non ce ne siamo accorti, tanto che è Canta che apre la portiera. ‘Vedo che vi state divertendo’ fa lui. […] ‘E mo chi è st’altro merdoso che fa lo sparone?…’ E con un grosso sputacchio centra in pieno grugno Canta, che fa una smorfia di quelle».

E Céline continua a sorprenderci, l’antisemita Céline, il paranoico razzista che si apprestava a comporre i suoi libelli più infami – Bagatelles pour un massacre (1937), L’École des cadavres (1938), Les beaux draps (1941) – traccia in Londres un solo ritratto più tenero, umano, fraterno: tra quelli di tanti ceffi, energumeni e farabutti che costellano il romanzo, l’unico in cui il ghigno sarcastico si stempera in un sorriso di riconoscenza e di rispetto, ed è proprio quello di un ebreo, anzi “ebreuccio” come lo chiama spesso affettuosamente: il dottor Athanase Yugenbitz. L’uomo che risveglia in Ferdinand la passione per la medicina, che gli presta libri di anatomia e fisiologia, che se lo porta dietro come “assistente” durante le visite a domicilio dei miserabili pazienti. «Tre figlie piccole c’aveva Yugenbitz, la più piccola, la più carina era Sarah, che non aveva ancora cinque anni. Un vero tesoruccio, tutta bruna, riccioluta e vispa […] La madre era caruccia pure lei, dolce, affettuosa, e anche un po’ martirizzata, per via della tragedia dell’esistenza e dell’esodo perenne da un paese all’altro con tre figlie, e delle difficoltà economiche e dei passaporti sospetti che dovevano spesso cambiare […] Allora sì che mi ha fatto felice. Mai nessuno mi aveva fatto così felice. L’ho guardato ben bene. Non mi stava mica coglionando. Non mi voleva nemmeno inculare. Voleva per davvero che cerco di capire quello che c’era scritto, spiegato nei suoi libri di medicina, che m’istruisco un po’ invece di non fare niente. Sicchè non gli interessavo solo in quanto lavoratore, soldato, magnaccia, ladro, disertore, stronzo, buffone? Gli interessavo semplicemente come me, come uomo? Era la prima volta che mi succedeva […] Comunque sia nessuno mai mi aveva lusingato, la prima lusinga che ho avuto è stato il signor Yugenbitz. Gli avrei leccato le mani, sarei morto per lui, seduta stante, per quello stronzetto di un ebreo. Gliel’ho detto. Si è messo a ridacchiare piano piano com’era sua abitudine».

E così grazie a Yugenbitz Ferdinand scopre la sua futura vocazione: “Avrei voluto credo guarire tutte le malattie degli uomini, non dovevano più soffrire quegli schifosi”. Un ben strano tipo di nihilista. E con Yungebitz Ferdinand sperimenta il primo fallimento della medicina con un piccolo paziente e ci consegna le pagine più commoventi del libro: «C’erano quattro candele accese intorno alla carrozzina. Il piccolo Peter sembrava che dormiva, solo ancora più pallido. Non avevo ancora mai visto un bambino così piccolo morto. […] Era insomma il mio primo malato il piccolo Peter, sono stato sfortunato. Quello che mi angoscia, e per sempre credo, è il modo che un bambino smette di giocare per andarsene di colpo, così presto, non ci mette quasi niente a spirare, il tempo un due tre di sollevare il piccolo pennello, di ridere ancora due o tre volte, quattro, e poi ecco fatto. Quel modo di essere entrato nelle nostre ombre solo per portarci un pochino di luce, come una farfalla entra la sera in giardino e incontro alla notte se ne va. Vent’anni sono passati da allora, e anche un sacco di cose, nel frattempo, assai strane e assai pesanti, e il piccolo Peter è sempre lì, per una frazione di secondo, per un breve sospiro».

Strano uomo Céline e strano libro questo Londra, pieno di abiezione e di poesia come gli altri, più degli altri, particelle di un’opera appassionata, beffarda e straziante come la vita, un’opera che assolve il suo autore da ogni peccato, sempre che di peccato si trattasse.