La storia di Palestina e Israele non si svolge solo sul suolo conteso del Medio Oriente, ma nella coscienza dell’Occidente. È lì che si decide, da oltre un secolo, chi merita compassione e chi condanna. È lì che l’eredità coloniale sopravvive sotto forma di linguaggio, diritto, diplomazia, sostenuta da una verità instabile, come il significato stesso delle parole che la raccontano. A portare chiarezza in un magma di informazioni distorte, ricostruite a vantaggio di una narrazione inequivocabilmente colonialista, è il volume Palestina fra Oriente e Occidente, scritto da Luigi Cazzato, professore ordinario all’Università degli Studi Aldo Moro di Bari. Un libro redatto con rigore scientifico attingendo a centinaia di fonti, ma anche col cuore spezzato di chi ascolta, tra le righe della storia, le voci del popolo palestinese che resiste all’oblio.
Frutto di un lungo studio a cavallo fra accademia, cronaca e militanza, l’opera è costruita attraverso un registro chiaro e una strutturazione decisamente solida. «Ho cominciato a scrivere questo libro dieci anni fa», ci racconta Cazzato, «quando a Gaza era in corso l’operazione militare “Margine di protezione” contro i civili. Cominciai a indagare la responsabilità storica dell’impero britannico rispetto alla questione palestinese. In realtà l’interesse risale agli anni universitari, al tempo dell’intifada, la prima intifada, quando i ragazzi palestinesi affrontavano i carri armati israeliani armati di pietre». La pubblicazione arriva in libreria al culmine di una campagna di bieca mistificazione occidentale, che ha sfruttato i terribili accadimenti del 7 ottobre 2023 per rilanciare un’operazione consapevolmente coloniale, che affonda le sue radici nella seconda decade del XX secolo, in particolare nella famigerata dichiarazione Balfour.
Ma Palestina fra Oriente e Occidente compie un passo ulteriore, ricollegando questa storia, ineffabilmente tragica, a un’accurata disamina di quel che il colonialismo ha significato in oltre cinque secoli di storia. «Nel libro – prosegue il professore barese – provo a sondare la profondità storica della questione palestinese partendo dal 1492. Per quanto possa sembrare strano, le radici affondano in quell’epoca, quando l’Europa non scoprì l’America, bensì la colonizzò. Israele è il prodotto della storia coloniale europea e siamo stati noi a insegnare agli ebrei europei, i sionisti, come colonizzare la Palestina, paradossalmente in un periodo in cui il colonialismo storico stava finendo. Per cui Israele, in quanto Stato colonia, è una sorta di anacronismo storico: uno Stato che pretende di replicare ciò che facemmo noi europei in Australia, in America o in Africa, massacrando i nativi attraverso una pulizia etnica fino alla loro estinzione. I media mainstream occidentali rimuovono questo fatto cruciale e, di semplificazione in semplificazione, di falsificazione storica in falsificazione storica, diventano complici del genocidio in atto».
L’ingiustizia verso la Palestina diventa quindi il simbolo più tremendo dell’impossibilità di tante culture internazionali ad autodeterminarsi. Un contributo determinante all’attuale status quo deriva proprio dalla sfera mediatica contemporanea, che invece di aiutare a ricomporre una pace duratura si rivela elemento ancor più destabilizzante. All’evidenza di chi sia l’aggressore e chi l’aggredito, si contrappone infatti una comunicazione mainstream che copre la lotta del popolo palestinese, disinformando e desensibilizzando il pubblico. L’azzeramento del contatore della storia e la sua ripartenza dal 7 ottobre ’23 rappresenta una delle modalità di alterazione della narrazione, che intende razionalmente porre le azioni di Israele fuori dal Logos. Cazzato insiste sulla retorica della modernità occidentale, spiegando come la sintassi e il vocabolario vengano strumentalizzati per evitare un dialogo ragionevole. Il risultato non si limita a una disinformazione pubblica, ma esonda fino ad attentare al diritto internazionale, oggi depotenziato proprio dalle democrazie che si arrogano la paternità di queste regole di civiltà. «L’attuale sionismo, con l’aiuto delle amministrazioni americane e soprattutto di Trump, ha fatto cartastraccia del diritto internazionale e fa dell’impunibilità la sua bandiera», spiega Cazzato. «Anche qui, i maestri siamo stati noi europei o occidentali, con il nostro doppio standard geopolitico: sanzioni alla Russia per aver invaso l’Ucraina, nulla di tutto questo per Israele, che sta commettendo da due anni un genocidio».
Una parte significativa del volume è poi dedicata alla resistenza “artivistica”, che viene analizzata in varie forme e anche nelle sue inevitabili contraddizioni. Si tratta di forme d’arte che affondano le proprie azioni nella parola araba sumud, con cui si indica l’atteggiamento etico-politico dei palestinesi e che alla lettera può essere tradotta come “perseveranza”. Attraverso decine di esempi e racconti, l’autore spiega come una forma di speranza arrivi proprio dal tessuto artistico internazionale, che deve farsi strada nel nostro vivo immaginario attraverso la forza della propria identità. Ce lo spiega meglio Cazzato: «La convinzione è che – come diceva Edward Said, l’intellettuale palestinese americano più conosciuto al mondo – si debba “colpire l’immaginazione del mondo”. Egli vent’anni fa rimproverava i palestinesi di non farlo con la stessa forza dei sudafricani durante l’epoca dell’apartheid. La convinzione è che il popolo palestinese possa raggiungere l’autodeterminazione, la libertà, solo se colpisce l’anima del mondo, così da portarla dalla sua parte attraverso l’arte e la cultura. Una sorta di sumud artistico globale. Israele, potenza nucleare e mediatica, non può affermare immaginazione nell’arte, né col suo esercito di soldati né con la sua macchina propagandista. L’unica soluzione per tutti quanti, come dice Susan Abulhawa, è che se ne tornino in Europa oppure che imparino a convivere con i palestinesi come loro pari: “dal fiume al mare”».


