Mario Desiati / Dare struttura a un sentire

Mario Desiati, Malbianco, Einaudi, pp. 400, euro 21,00 stampa, euro 10,99 epub

Marco Petrovici – il protagonista di questo romanzo dello scrittore di Martina Franca Mario Desiati – è il nome di molti lutti, è il nome di vuoti e tasselli mancanti, è il nome di una o forse molte nevrosi. E può una nevrosi individuale essere il sintomo di una tragedia storica collettiva transnazionale? La nevrosi come disagio e timore è certamente uno dei tratti distintivi dell’opera di questo autore. In Vita precaria e amore eterno (2006) c’era la nevrosi della precarietà lavorativa, emotiva ed esistenziale, in Candore invece emergeva la nevrosi dell’immaginario e delle relazioni sociali, mentre in Spatriati (2021) (vincitore del Premio Strega 2023) regnava la nevrosi dell’identità individuale e collettiva di una generazione che, in questo Malbianco, slitta verso la nevrosi di un’incerta identità familiare che si confronta con le più grandi tragedie delle identità e delle appartenenze diasporiche. Si tratta sempre di nevrosi che spingono forte sul pedale dell’irrequietezza e del movimento: i personaggi attraversano paesi, città e metropoli, boschi e mari, percorrendo l’Europa da Sud a Nord e viceversa, da Est a Ovest, viaggiando nel tempo: sono infaticabili camminatori dell’esistenza.

Recentemente, Davide Coppo, in un pezzo significativamente intitolato Il romanzo italiano è diventato expat su “Rivista Studio”, ha notato che Spatriati farebbe parte di una recente ondata di letteratura italiana cosiddetta “expat” ovvero il racconto di “italiani venti-trenta-quarantenni che vivono in Europa da pochi o molti anni, affiancano solitamente al lavoro di scrittura un mestiere che ha a che fare con la creatività o l’insegnamento”, poiché l’Italia è sempre stato un Paese di emigrazioni.

Intuizione interessante che, a ben vedere, si potrebbe comodamente estendere, per esempio, a uno dei grandi bestseller dell’epoca post unitaria: Cuore (1886) di Edmondo De Amicis che è anche un romanzo sulle grandi emigrazioni degli italiani e delle italiane, oppure a Tempo di uccidere (1947) di Ennio Flaiano (primo vincitore del Premio Strega) che si svolge nell’Etiopia colonizzata e straziata dal colonialismo italiano, o ancora al grande romanzo del confino fascista che è stato Cristo si è fermato a Eboli (1945) di Carlo Levi che si svolge in una Basilicata raccontata come luogo remoto nello spazio e nel tempo e scarsamente italofono, fino a quel Camere separate (1989) di Pier Vittorio Tondelli, malinconica storia d’amore e di abbandono italo-europea a tutto tondo. Impossibile non pensare qui anche ai più recenti romanzi-epopea quali, tra tanti, Oltre Babilonia (2008) di Igiaba Scego e Regina di fiori e di perle (2007) di Gabriella Ghermandi.

In questo vasto scenario può essere letto Malbianco, che mescola molti elementi di tutti questi romanzi, ricomponendoli in un mosaico del tutto originale: migrazioni, violenze, razzismo, guerre, segreti familiari, orientamento sessuale e tutti i possibili tasselli dell’identità umana. Nell’ipotesi di una letteratura in italiano che è per sua stessa natura – per la natura identitaria sfrangiata dei suoi parlanti e lettori – di movimento o, appunto, expat, Malbianco è un romanzo dislocato e sempre fuori dal (presunto) luogo d’origine dei suoi protagonisti: tutto si muove, nel tempo, nello spazio e nei ricordi. Nell’alternarsi tra la magia e la fascinazione della natura non umana (onnipresente la figura quasi totemica dell’asino di Martina Franca), tra la materia sognata dell’infanzia e la cupezza enigmatica del mondo adulto, si srotolano le vicende di protagonisti che hanno molto da raccontare e troppo da nascondere.

Il protagonista Marco porta il nome fantasmatico di uno zio e di un prozio morti: un nome che è insieme mistero e fardello (un’altra nevrosi). Ed è questo fardello a spingere Marco ad indagare – studiando affannosamente libri, carte, documenti, riaprendo scatole sepolte – la storia della sua famiglia: la ricostruzione di questa storia in qualche modo coincide con la sua terapia.

Nella filigrana del testo, in effetti, l’indagine e la scrittura emergono proprio come forma di cura; “l’arte della scrittura”, infatti, “è innanzitutto organizzazione del pensiero, dunque dare struttura a un sentire”. Emergono così i vecchi diari dello zio Marco morto in giovane età, nonché le testimonianze orali raccolte dal protagonista che riporta e annota romanzi e saggi storici sulle sorti dei prigionieri italiani nel campo tedesco di Schöneweide e quelle dei soldati italiani arruolati nella famigerata ARMIR (Armata Italiana in Russia) durante la Seconda guerra mondiale, luoghi dai quali rientreranno rispettivamente, dopo ben due anni e misteriosamente insieme, suo nonno Demetrio e suo fratello Vladimiro detto Pepin. “Se il trauma appare sotto forma di racconto su un pezzo di carta, non appare sul corpo” e così il processo di trasferimento del trauma non è che la metafora del complesso lavoro di scomposizione e ricomposizione del narrare e della scrittura. Un po’ come se l’invenzione narrativa potesse suturare ferite esistenziali.

Desiati ha scritto un romanzo-mondo, un romanzo onnivoro che fagocita desolate terre ghiacciate, campagne e complessi industriali da Berlino al tarantino; divora vicende storiche disparate; ingurgita scritture letterarie e musica; rimastica intere, lunghe porzioni di tempo dilaniato. Per fare questo si estende in ogni direzione, convocando una messe di personaggi legati tra loro da fili sottili e lunghissimi, fragili: tutti con una storia personalissima e punti di vista degni di essere raccontati. Perché l’umanità è una storia – ha molte storie che devono essere tramandate e ancora inventate.