Max De Paz, classe 2002, fa sua una delle istanze principali della letteratura francese contemporanea con una scrittura già definita e matura: dare voce a chi vive ai margini del tessuto urbano, raccontare Parigi, la metropoli per eccellenza, mettendo al centro le disuguaglianze sociali e la povertà in crescita. Mendicare, pubblicato in lingua originale dalla prestigiosa Gallimard e in Italia da nottetempo nella traduzione di Annalisa Romani, si pone nel filone di opere come La trilogia della città di Parigi di Virginie Despentes (Bompiani, 2019), con protagonista un uomo per la prima volta alle prese con la quotidianità da senzatetto.
Il narratore è un ragazzo senza nome, uno dei tanti clochard del V arrondissement, tra le famiglie borghesi del quartiere Val-de-Grâce e gli studenti di corsa della zona universitaria. Lo è diventato da poco, ma ha imparato in fretta il necessario: si riscalda sulle banchine della metropolitana, si lava quando può alle docce e ai bagni pubblici, si è conquistato uno spazio fisso dove passare le notti, trascorre le giornate chiedendo l’elemosina e cercando di combattere la noia. I suoi compagni sono gli unici di cui fidarsi: Philippe, l’anziano amante dei libri, Tamás, proveniente da una comunità rom, e Moussa, abituato a sopportare la sua condizione con qualche fugace piacere occasionale.
La prosa si rivolge a un tu, incerto fino alla fine. Un destinatario capace di tirare fuori, capitolo dopo capitolo, la rabbia repressa del giovane: De Paz distrugge l’immaginario romantico di una povertà dimessa, tollerabile perché non intacca l’apparente armonia collettiva, e abbraccia invece il rancore dei vinti, il desiderio di fare disordine e rumore per infrangere l’indifferenza generale. Abitare per strada significa affrontare la solitudine con quello che si ha a disposizione, significa venire disumanizzati agli occhi degli estranei: se questa bestialità è inevitabile, lo è altrettanto l’ipocrisia del mondo, avvezzo a girare il viso dall’altra parte e fingere. Per questo motivo il protagonista vede nelle dinamiche dell’atto di mendicare il fulcro dell’ingiustizia: ad accettare denaro, si sente ancor più vincolato alla sua situazione, mentre l’altra persona si alleggerisce in una qualche forma la coscienza.
Tra le vie di una Parigi agiata, De Paz restituisce il linguaggio della fame, la diffidenza che regna anche tra gli stessi mendicanti: il ragazzo incorre in meno difficoltà perché è francese e bianco, al contrario di Tamás e Moussa. «In strada ogni schifezza è permessa; ebbene eccola, la più grande di tutte: dover scegliere tra sé e l’altro quando l’altro è miserabile da morire». Eppure c’è sempre la possibilità di compiere gesti inediti di condivisione e solidarietà, mantenendo la propria dignità. Per lui, per esempio, la dignità è nell’aver infine accettato la realtà e nell’aver ammesso la tossicodipendenza di suo fratello Jonas, così a lungo negata dalla madre.
L’incontro con Élise, che conosce fin troppo bene i pericoli dell’essere una senzatetto donna, coincide con la necessità del narratore di esprimere finalmente quella rabbia, di riprendersi a poco a poco gli spazi della città. Ed è anche l’arrivo di un insperato spiraglio di luce, lontano dai ricordi e dalla delusione: “Quello che voglio è trovare un po’ di vita in questo gran bordello, insieme”, ammette Élise. E il ragazzo aggiunge, a nostro beneficio: “La strada non si spiega, diceva, la strada sta lì”.